L’8 agosto ricorre il Giorno internazionale del gatto,
celebrazione introdotta nell’anno 2002 dall‘International Fund for Animal Welfare;
è nella storia che si ritrovano molte delle fonti dedicate a questo amato animale.
Il Felis silvestris catus -nome scientifico attribuito al “gatto” e coniato nel XVII secolo dal naturalista e botanico accademico Carl von Linné – è spesso associato ad un luogo comune ambientato nell’epoca Medievale.
Un importante excursus storico parte dall’antico Egitto in cui il felino da molti amato era conosciuto con il nome “Mau”. La cultura egizia, come confermato dall’archeologia, divinizzava il gatto: a tal proposito risulta essere particolarmente importante l’esempio di mummificazione dei gatti provenienti dai contesti domestici più abbienti, come testimoniato dal monumento funebre di Myt, gatta dell’erede al trono della XVIII dinastia Thutmose;
nel sarcofago di Myt, attualmente ubicato al Museo del Cairo, sarebbe stata rinvenuta la statuetta di uno Shauabti, divinità che avrebbe dovuto accompagnare ed assistere la gatta nel Regno dei Morti.
Della pratica post mortem ne parlerà lo storico greco Erodoto (484 a.C. – 425 a.C.) nelle sue “Storie”.
Nel pantheon egiziano la figura del gatto è assai ricorrente: un rilevante contribuito, a tal proposito, vien dato dalla decorazione rinvenuta su una coppa di cristallo databile intorno al 3100 a.C. e raffigurante la dea Bastet celebrata a Par-Bastet come divinità femminile dei gatti e della fertilità.
Nell’Egitto più arcaico ampia era la tutela giuridica riservata al gatto e qualunque atto lesivo di questi
animali sacri veniva punito con la pena di morte.
Allo stesso modo della cultura egizia, quella romana ritiene i gatti animali assai prodigiosi riconoscendo loro
– oltre alle qualità di debellatori per eccellenza di malattie letali di cui i ratti erano vettori – proprietà
“magiche” dovute dalla maggiore sensibilità nella percezione di particolari eventi atmosferici e la natura
segreta e misteriosa del felis silvestris catus veniva spesso associata ai cicli lunari; frequente fu l’adozione
nelle domus di questi felini a scopo protettivo, sia sotto il profilo salutare che mistico-spirituale.
Il gatto nei monasteri medievali
Nel Medioevo, tuttavia, questa concezione positiva attribuita al felino domestico non muta radicalmente seppure non mancherebbero voci che assimilano il gatto alla stregoneria e, dunque, al Diavolo. Nonostante quanto si dica esser riportato dalla bolla “Vox in Rama audita est…” promulgata nel 1233 dal pontefice Gregorio IX ed indirizzata all’ imperatore Federico II e la bolla del 1484 “Summis desiderantes affectibus” promulgata da Innocenzo VIII con la quale si chiedeva l’impegno al ripudio di ogni forma di “eresia” senza che però si faccia mai menzione esplicita al felis silvestris catus.
Tuttavia, per un grande lasso di tempo il luogo comune e le usanze folkloristiche più arcaiche hanno
associato questo animale alla venerazione di Satana ed ai Sabba compiuti dalle streghe, condizionando la superstizione popolare ed inducendo il popolo a commettere crimini assai crudeli nei confronti di questi animali oggi tanto amati: per anni, la notte intercorrente tra il 23 ed il 24 giugno, in concomitanza con il solstizio d’estate, si celebravano rituali che avevano come scopo quello di debellare il male ed i malefici della stregoneria; secondo alcune testimonianze moltissimi gatti sarebbero stati vittima di quei fatti scaramantici.
AI gatti si imputò anche la malattia neurologica conosciuta come Danza di San Giovanni o Ballo di San Vito: soprattutto nei contesti rurali delle società più arcaiche era pratica comune ardere vivi i felini per debellare ogni male e scongiurare ogni sciagura di cui il diavolo, assieme alle streghe, sarebbe stato l’artefice.
Ancora oggi nella città belga di Ypres, ricordata storicamente come capitale del tessuto nelle Fiandre, si celebra, con una rievocazione storica il genocidio di molteplici gatti avvenuto molti secoli or ‘sono.
Un dato storico di particolare curiosità smentisce questo luogo comune che interessa il periodo bassomedievale affermando, invece, la presenza gradita dei gatti all’interno dei cenobi medievali.
La presenza del felino nei monasteri ha trovato una fonte attendibile nell’ agiografia della vita di Chiara d’Assisi, capostipite dell’Ordine delle clarisse, che riporta nelle narrazioni la presenza di “Sora Gattuccia”, gatta affezionata e gradita anche durante la celebrazione delle funzioni religiose.
La stessa abbadessa franca e Santa della Chiesa, Gertrude di Nivelles (626 – 664), in un’iconografia del XIV secolo contenuta nel manoscritto Stowe (17, c. 34r) viene rappresentata mentre gira il fuso con il gatto;
Santa Gertrude di Nivelles è stata, poi, battezzata dalla Chiesa di Roma “protettrice dei gatti”.
Le Chat de Chartreux – conosciuto come “gatto certosino” –sarebbe una delle specie più antiche di cui si ha menzione in Francia nel 1558 grazie agli scritti del poeta Joachim du Bellay, il quale attesterebbe che questa specie era assai gradita all’interno dei cenobi, ed il suo nome deriverebbe proprio all’Ordine religioso certosino di cui San Bruno fu il capostipite nel XI secolo.
Importante era la presenza dei gatti all’intero degli scriptoria dei monasteri al fine di proteggere i pregiati manoscritti dai topi e, quanto affermato, può essere avvalorato da una meravigliosa scoperta portata a compimento durante gli studi paleografici effettuati sugli antichi tomi, testimoni dell’arte amanuense del
tempo.
La scoperta, risalente a luglio 2011 è avvenuta ad opera di Emir O. Filipović, assistente e ricercatore dell’Università di Sarajevo, il quale ha scoperto su alcune pagine di un antico volumen del 1445 delle macchie di inchiostro compatibili con le impronte lasciate da un gatto proprio durante la realizzazione del tomo che riporterebbe la data dell’11 marzo del 1445.
La Summa de Casibus Conscientiaedi Astesanus de Ast, non è l’unica e rara attestazione della vita di un gatto all’interno delle sale capitolari ove i monaci impegnavano le ore di luce naturale nell’arte amanuense;
nel monastero di San Paolo in Carinzia fu rinvenuto lo scritto “Pangur Bán”, lirica di trentadue versi composta nel IX secolo e dedicata al gatto bianco detenuto dall’autore, monaco amanuense di origini irlandesi la cui identità resta anonima, seppure viene attribuita dagli studiosi al grammatico latino Sedulius Scotus.
Nel poemetto, scritto a caratteri insulari e contenuto nel breve manoscritto Reichenauer Schulheft, l’autore crea un’analogia tra i suoi lavori intellettuali ed accademici con la diligenza che impiega il gatto a cacciare un topo con le seguenti parole tradotte:
“Io e il mio gatto Pangur Bán/abbiamo lo stesso compito:/ lui a caccia di topi lieto corre /io a caccia di
parole sto seduto/notte e giorno./È molto meglio di ogni/onore ricevuto/con libro e penna starmene
seduto;/Pangur certo è pigro,/e mette in pratica la sua semplice arte./È piacevole vedere/la gioia che ci
procurano i nostri lavori/quando insieme siamo seduti nella stanza/e proviamo a dilettare il nostro
spirito./Un topo smarrendosi finisce spesso/tra i piedi dell’eroico Pangur Bán;/spesso il mio pensier si
tende,/ed un significato nella sua rete prende./Il gatto posa gli occhi sul il muro,/grande e grosso e scaltro e
sicuro;/sul muro del sapere metterò/a dura prova quel poco che so. /Quando un topo esce dal sua
nascondiglio,/Pangur Bán è colmo di gioia;/e io sono pieno di gaudio/quando risolvo questioni complicate!
/Serenamente ci dilettiamo con il nostro lavoro/e io il mio gatto Pangur Bán:/nella nostra arte troviamo la
felicità/io la mia, lui la sua./L’allenamento costante ha trasformato/Pangur Bán in un perfetto gatto; /notte e giorno sapienza io apprendo/in luce l’oscurità volgendo.”
Quanto appena detto è una concezione che si contrappone ai luoghi comuni che sopravvivono ancora oggi e che hanno come protagonisti i gatti, creature prodigiose e “magiche”, così ritenute per i connotati di autonomia ed indipendenza che li contraddistinguono.
Non son certamente rare le iconografie e le miniature presenti nei tomi e nei marginalia.
Tra le pregiate pergamene del Bestiario di Aberdeen, manoscritto miniato inglese risalente al XII secolo, e custodito nella Biblioteca dell’Università di Aberdeen, vi è inventariato il MS 24;
al Folio 23 verso, si rinviene la miniatura del Musio ad opera del teologo, scrittore ed arcivescovo di origini spagnole, Isidoro di Siviglia, nella sezione “Minuta animala” raffigurerà – per primo in assoluto – il Musio (gatto) attribuendo alla caccia del gatto al topo l’allegoria del trionfo del bene sul Maligno.
Altre interpretazioni coeve si pongono in antitesi a quanto già affermato: un esempio è rinvenibile negli scritti del predicatore e seguace di San Francesco d’Assisi, Luca da Bitonto il quale, servendosi di una metafora, afferma:
«Il Diavolo si prende gioco di alcune anime, come fa il gatto con il topo che, lasciato fuggire più volte, viene poi catturato e ucciso. Allo stesso modo si comporta il Diavolo quando permette che alcune anime, per un certo tempo, si allontanino da lui. Ma molte anime si prendono gioco del diavolo, come fa il gatto quando cattura un uccellino per giocare con esso, così come è solito fare con il topo. Ma l’uccellino non si lascia catturare e vola via».
Il religioso Lucas de Túy, vissuto nel XIII secolo, nei suoi scritti, riporta un episodio che rivelerebbe il gatto portavoce del volere di Dio con le seguenti parole: «A Lodi, un gatto domestico si scagliò contro un eretico che, in punto di morte, rifiutò l’eucarestia e bestemmiò il Sacramento»