L’autrice di oggi, Jessie White Mario, ha una targa a Firenze che inizia con la frase “Inglese per nascita, per anima e opera italiana”.
Questa la prima annotazione, la seconda è più particolare, perché è identificativa del ruolo politico.
Nel febbraio 1879 il premio Nobel Giosuè Carducci, criticando l’inoperosità della sinistra italiana verso le classi più deboli, in quell’anno forza di governo a sostegno di Depretis, scrisse: «La democrazia conta un solo scrittore sociale: ed è un inglese, ed è una donna; la signora Jessy Mario, che non manca mai dove ci sia da patire o da osare per una nobile causa. »
Jessie Jane Meriton White (1832 – 1906) prende il cognome Mario per aver sposato un fiorentino Alberto Mario anche lui patriota e giornalista.
La sua biografia la presenta come una filantropa inglese, scrittrice naturalizzata italiana.
Seguace di Mazzini e Garibaldi, dell’uno e dell’altro biografa. La troviamo, con questo testo di oggi, degnamente rappresentata nella sua attività giornalistica di inchiesta sulle condizioni di vita nei quartieri poveri di Napoli.
Un’antesignana del reportage
La storia di questo personaggio, per nulla minore nel panorama storico culturale italiano, fa riflettere sul come una ricca ragazza inglese si appassioni alla causa dell’unificazione italiana.
Io penso al forte ruolo di Garibaldi, esterofilo eroe internazionale che affascinò al tema italiano e l’Inghilterra perse la prima donna medico.
L’altro ruolo è sicuramente quello di Giuseppe Mazzini, che era in esilio a Londra. Due totem della nostra storia.
Con il marito fecero comizi a Londra, perorano la causa italiana anche a New York. Come agenti mazziniani conobbero persecuzione e carcere. Come infermiera partecipò alla terza guerra di indipendenza. Oggi onoriamo questa patriota.
Incipit un brano del libro di sicuro effetto
“l lettore si ricorderà che l’autore descrive queste grotte, ove vivevano o morivano venti o trenta famiglie, e da dove la Scwhabe ha sottratto a morte certa una madre con cinque bimbi, affamati, nudi, orridi d’insetti schifosi.
E questa madre doveva, la notte, vegliare costantemente, perché i topi non cibassero la carne delle sue creature.
La vista delle quattro figlie di costei, ora sane, robuste, allegre e studiose, e l’udir da capo dalle maestre di quella scuola descrivere, quali testimoni oculari, lo stato in cui esse furono trasportate a quell’ospitale asilo (trasportate, mi piace di ricordare, in carrozza in braccio da quella nobile Tedesca che non indietreggiò davanti alla nausea e al pericolo di malattia contagiosa, perché il tifo regnava nella grotta), destava sempre più il mio desiderio di visitare il luogo, da cui furono tolte. Accompagnata da un amico e da un delegato di 488
Pubblica Sicurezza, andai dunque al quartiere di Monte Calvario al di sopra dei giardini di Santa Lucia al Monte.
Il delegato, i membri del Municipio, ed altri, mi avevano assicurato che queste grotte non servivano più di abitazione umana, ma che gli abitanti furono tramutati a spese del Municipio in più salubre quartiere.
Difatti, giunti alle falde del Monte d’Echia, abbiamo trovate per la più parte queste grotte occupate da greggi di pecore e di vacche, che con campanelle al collo girano mattina e sera per le belle vie di Napoli, i loro proprietarii urlando: “latte da vendere, latte da vendere”, per chi vuole e per chi non vuole prestarvi orecchio.
Una di tali grotte però era ingombra da parecchie famiglie, ed io penetrai fino in fondo ripopolandola, coll’immaginazione, di quelle trenta famiglie che vi stavano pochi anni fa.
Le grotte, che somigliano precisamente alle catacombe di Roma, sono scavate nel monte; epperò chi possiede l’appartamento all’entrata può stimarsi inquilino del piano nobile a cagione dell’aria e della luce abbondanti.
Ma penetrandovi e spartendo questa lunga grotta in trenta quartieri, appena può idearsi la condizione di coloro che vivono in fondo, ove l’atmosfera è di carbonio puro, ove nulla difende questi infelici dall’umidità, onde son sature la vôlta e la nuda terra, ove una semplice marca convenzionale divide l’una dall’altra famiglia, come segno di proprietà, e ove codesti infelici ospiti spagari, lavorando ciascheduno 18 ore al giorno, pervengono a torcere 50 matasse di spago per guadagnare 15 grani; dai quali deducendone sette di spesa, restano otto grani per vivere. Ognuno deve possedere la propria ruota per avvolgere il canape e svolgerlo in fili più o meno sottili; e miseri fanciulli affamati girano lunghe ore il perno fissato nell’asse della ruota.
Però, uscita una volta dalle orribili caverne e fermatami a parlare colle spagare, non potetti a meno di rallegrarmi dell’aria purissima e della stupenda vista del mare e della città stesa sulle sue sponde e dell’ampio spazio del cielo azzurro, mentre nei quartieri bassi, per cui eravamo passati, l’aria mancava e le case altissime, che sembrano toccarsi in cima, precludevano la vista e del sole e del cielo.
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