Sul sito di ricerca Aeon si analizza il concetto di globalizzazione, spesso percepito come un fenomeno recente, esploso negli anni ’90 con la fine della Guerra Fredda e l’integrazione economica mondiale.

Tuttavia, l’autore sostiene che la globalizzazione è un processo molto più antico, radicato nella storia umana.

Attraverso l’esempio di un mercato olandese, si evidenzia come l’interscambio culturale e commerciale sia sempre esistito. Il testo ripercorre la prima grande ondata di globalizzazione avvenuta tra il 1500 e il 1800 con l’“Era delle Scoperte”, l’imperialismo e lo scambio colombiano, che trasformarono la società, le economie e le identità culturali.

La globalizzazione non è un fenomeno recente

In sintesi, la globalizzazione non è un fenomeno moderno che ha sconvolto le tradizioni, ma una caratteristica costante della storia umana, che ha sempre influenzato culture, economie e identità. Un processo continuo che dura da migliaia di anni. Ogni epoca ha vissuto scambi culturali e commerciali, che sono stati assimilati e trasformati dalle società locali in modi che li hanno resi familiari. Questo processo, chiamato “glocalizzazione”, fa sì che le influenze globali vengano integrate e reinterpretate fino a essere dimenticate come elementi estranei.

La nostra memoria collettiva è selettiva e tende a concentrarsi sul presente, trascurando l’impatto storico degli scambi globali. Tuttavia, elementi essenziali delle nostre società – come le religioni mondiali, i sistemi di scrittura, le pratiche agricole e alimentari – sono frutto di migliaia di anni di interconnessioni. La globalizzazione, quindi, non è un fenomeno moderno, ma un aspetto fondamentale della storia umana.

Uno schema ripetuto nella storia

La globalizzazione segue uno schema ripetuto nella storia, alimentato dall’evoluzione delle tecnologie di connessione, dalle antiche rotte carovaniere a Internet. Ogni innovazione ha facilitato la diffusione di lingue, culture e idee, rendendo il mondo sempre più interconnesso.

Molti simboli culturali che consideriamo “autentici” – come le cucine nazionali, le religioni e le lingue – sono in realtà il risultato di scambi globali secolari. Ad esempio, alimenti come la patata, il pomodoro e il riso hanno viaggiato per il mondo, diventando pilastri di tradizioni culinarie lontane dalle loro terre d’origine.

Dimenticare queste origini è parte del processo di globalizzazione: ciò che un tempo era straniero diventa familiare. In definitiva, quando celebriamo le nostre identità culturali, stiamo in realtà celebrando una storia comune di incontri e contaminazioni globali.

La globalizzazione è un fenomeno costante nella storia umana e rappresenta il processo attraverso cui la cultura evolve e si perpetua. La cultura, intesa come adattamento all’ambiente, si manifesta in diverse forme locali, ma tutte condividono una matrice comune.

Spesso si confondono le espressioni culturali con l’identità profonda dell’umanità. Ad esempio, le cucine nazionali sono solo variazioni di un tratto universale: la cucina stessa. I confini culturali sono illusori e, nel lungo termine, le culture si fondono tra loro. Tuttavia, la nostra memoria limitata e le narrazioni nazionali ci fanno dimenticare il ruolo cruciale della circolazione delle idee rispetto alla loro invenzione.

Grandi innovazioni come la ruota o l’alfabeto sono state create poche volte, ma la loro diffusione ha avuto un impatto globale duraturo. La nostra natura cosmopolita e la nostra mobilità hanno reso possibile il progresso, dimostrando che siamo cittadini del mondo prima che di una singola nazione.

Migrazioni e libertà di movimento

La libertà di movimento è un diritto fondamentale che ha garantito la sopravvivenza e il progresso umano, ma spesso viene trascurato a favore di un’ideologia che sacralizza le “radici” e la sedentarietà. Stati e società territoriali tendono a valorizzare l’appartenenza a un luogo fisso, mentre guardano con sospetto e ostilità ai migranti, ai nomadi e ai cosmopoliti.

Il cosmopolitismo, lungi dall’essere una minaccia, è un valore essenziale per affrontare le sfide globali, come sottolinea il filosofo Kwame Anthony Appiah. La nostra storia è una storia di movimento continuo: siamo diventati una specie globale, capace di stabilirsi in luoghi duraturi senza perdere la capacità di spostarci. Questo equilibrio tra sedentarietà e mobilità ha reso possibile la nostra evoluzione e la nostra diffusione su tutto il pianeta.

La ricerca sul fenomeno migratorio, sottolineando che la migrazione è una caratteristica intrinseca della storia umana, sia nel presente che nel passato. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nel 2020 una persona su 30 era migrante, e si prevede che questo numero aumenterà a causa di povertà, degrado ambientale, conflitti e la ricerca di migliori opportunità economiche.

La migrazione, tuttavia, non è un fenomeno recente: la storia dell’umanità è segnata da spostamenti continui, come documentato nei registri archeologici e genomici. La prima grande “odissea” cosmopolita dell’umanità è avvenuta nel Paleolitico, con spostamenti che hanno permesso agli esseri umani di adattarsi a diversi habitat e creare culture regionali. La migrazione è vista come una risposta adattiva alle difficili condizioni ecologiche e sociali, una forma di preservazione della dignità umana quando le condizioni di vita diventano insostenibili.

Tuttavia, la tendenza naturale a spostarsi e mescolarsi a volte genera ansia, spesso innescata dalla globalizzazione e dalle sue manifestazioni attuali, che dimenticano i movimenti storici e la mescolanza culturale. In risposta a questa ansia, vengono adottate misure come passaporti, restrizioni di viaggio, segregazione etnica nelle città e divieti culturali, ma queste misure si rivelano inefficaci. Un esempio di questo fallimento è l’iniziale avversione delle autorità spagnole verso le tortillas di mais, considerate una minaccia, ma che oggi fanno parte della cultura mondiale, così come il cristianesimo, che nonostante le persecuzioni iniziali è diventato una religione globale.

Il testo porta esempi storici, come la proibizione dei cotoni indiani in Francia nel XVII secolo e la resistenza iniziale contro alimenti e religioni provenienti da altre culture, per mostrare come la globalizzazione sia stata una costante e non una novità.

In sintesi, la migrazione è un fenomeno profondo e naturale per l’umanità, ma le paure e le resistenze alla mescolanza culturale sono parte di un processo di “dimenticanza” della nostra storia di movimento e adattamento.

L’autore evidenzia anche come, nel contesto contemporaneo, i movimenti anti-globalizzazione si siano evoluti da posizioni di sinistra a quelle di destra, alimentando il nazionalismo e l’identitarismo.

Questo nazionalismo si traduce in risentimento contro le influenze globali e la percezione che la mescolanza culturale minacci la “sicurezza” e l’”identità”. L’autore sottolinea che, nonostante le preoccupazioni legate alla globalizzazione, la nostra identità come esseri umani è il risultato di secoli di movimenti, adattamenti e incontri tra diverse culture.

Inoltre, viene criticata l’ideologia identitaria che cerca di preservare “culture pure”, portando a un fraintendimento scientifico della genetica e dell’identità. Viene sollevata la preoccupazione che manipolazioni ideologiche potrebbero portare a ideali di superiorità razziale basati su differenze genetiche, come quelle tra Homo sapiens e Neanderthal.

Il testo conclude con una riflessione sulla necessità di riconoscere che le guerre contro gli altri sono, in realtà, guerre civili, e che solo riconoscendo la nostra identità globale, forgiate dai nostri viaggi e incontri, possiamo superare le divisioni e continuare a crescere come un’unica famiglia umana.

La pluralità, invece di essere vista come una minaccia, dovrebbe essere riconosciuta come la ricchezza della nostra cultura condivisa.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

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