<a href="https://www.corrierepl.it/" target="_blank" rel="noopener">Corriere di Puglia e Lucania</a>

Siamo entusiasti della nostra rubrica, “Versi e Racconti della Settimana“, dedicata a celebrare i talenti letterari emergenti. In collaborazione con l’Associazione Nazionale Italiana nel Mondo, Anim Aps, offriamo uno spazio unico per chi ama scrivere e desidera condividere la propria voce.

Un punto di riferimento per gli italiani nel mondo: connessione, identità e comunità.

Ogni venerdì, presentiamo nuove poesie, racconti e estratti che ispirano e fanno riflettere. Che tu sia uno studente, un insegnante, un autore emergente o semplicemente un appassionato di parole, ti invitiamo a partecipare! Invia i tuoi testi a redazione e potresti essere uno dei protagonisti della nostra rubrica.

Non perdere l’opportunità di far sentire la tua voce! Ogni settimana selezioneremo i contributi più originali e interessanti per metterli in evidenza nella nostra sezione “Versi e Racconti della Settimana” della rubrica “Arte, Cultura & Società“.

Unisciti a noi e contribuisci a arricchire il panorama letterario!

L’obiettivo?

Promuovere la scrittura e dare spazio a nuovi talenti, sia a livello nazionale sia internazionale.

Non perdere questa opportunità!

Hai scritto qualcosa?

Invia i tuoi testi a redazione@corrierenazionale.net, entro il mercoledì di ogni settimana! Insieme, con le nostre parole, possiamo fare la differenza.

 #ScriviConNoi #FaiLaDifferenza

 

Nel numero di questa settimana, abbiamo il piacere di presentare i contributi giunti in redazione:

 

SOLO UNA DONNA

 

Ero in ritardo. Avevo bisogno di togliermi le scarpe dai tacchi a spillo e stendere le gambe. Come al solito, il mio capo mi aveva trattenuta fino a tardi.

– Sei la mia segretaria personale! – affermava, mentre mi guardava con intenzione

– È un ruolo importante! Quante ragazze vorrebbero essere al tuo posto! – Intanto, ridacchiava e mi dava uno scappellotto sul sedere.

Lo odiavo ma, in famiglia, avevamo bisogno di quello stipendio. Ero l’unica a lavorare e, a dir la verità, il capo, un uomo molto affascinante, mi pagava bene. Qualche volta, poi, quando aveva azzeccato un affare: – Mi piaci da morire! – mi diceva- Non potrei vivere senza di te. –  Allora, mi allungava qualche banconota di grosso taglio e, poi, se ne tornava sereno nella sua villetta con la sua famiglia.

Aperta la porta di casa, avevo subito capito che qualcosa non andava. Mio padre era di nuovo ubriaco. Aveva giurato che non avrebbe più bevuto e che avrebbe cercato un lavoro. Ogni volta, faceva così, piangeva, si pentiva e poi… Arrivava barcollando e, per un qualsiasi motivo, si arrabbiava e spaccava piatti e bicchieri. La mamma si disperava, non era capace di fare altro. Magari capitava che si prendesse anche una sberla o un calcio.

-Andiamocene via, mamma. Lasciamolo al suo destino. – le ripetevo. Inutilmente.

Una volta, però, lei ci aveva provato. Era andata da un’amica. Io ero fuori per lavoro perché, ogni tanto, il capo mi portava con sé quando si recava ai convegni internazionali. Allora, la mamma era fuggita ed era andata a dormire da Anna, una sua ex compagna di scuola. Il giorno dopo, mio padre era là, a supplicarla che non sarebbe più successo, che aveva sbagliato, che si sarebbe curato. Anna aveva insistito tanto con mia madre perché non lo ascoltasse, che lui diceva sempre così e, poi, se ne dimenticava! – No, questa volta sarà diverso. – aveva garantito mio padre.

In effetti, per un po’ era andato tutto bene, lui frequentava gli Alcolisti anonimi e lavorava. Poi, aveva perso il lavoro perché aveva litigato con il capocantiere. Era rimasto in giro a bighellonare; infine, era tornato al solito bar.

Quella sera, era particolarmente incattivito. Aveva già rotto l’insalatiera e fatto volare striscioline di insalata per tutta la cucina. Ora, stava prendendo a calci il tavolo e le sedie.

-Finiscila! – gli avevo urlato. Lui, barcollante sulle gambe, aveva brandito l’unico coltello che tenevamo in cucina. Io e la mamma ci eravamo chiuse in camera e, dopo un po’, lui era crollato sul divano e si era addormentato. Russava, con il coltello in mano.

Basta! Quella storia doveva finire. Così, avevo fatto vedere a mia madre l’avviso trovato su internet.

“Ricominciare una nuova vita è possibile! Vieni su K2-18 b. Non te ne pentirai.”

-Addirittura, cambiare Pianeta! – La mamma era scoraggiata.

-Dicono che ci siano tante opportunità. Cercano persone per qualsiasi tipo di impiego, c’è spazio, hanno bisogno di gente, è un mondo in via di sviluppo! – le avevo spiegato.

-Come si fa ad andarci?

-C’è un’astronave. È comodissimo. In poco più di una settimana si arriva a destinazione.

-Se ti sembra una buona possibilità, vai. Tu sei giovane, hai una vita davanti.

-No, mamma, andremo insieme, ricominceremo una nuova vita. Porteremo con noi la libertà riconquistata: tu da papà, io da un lavoro senza dignità. Sarà bellissimo!-

Infine, eravamo partite. L’astronave era come un hotel, con le sue stanzette per riposare e una grande sala per i pasti. Attraversava i cieli. Ecco, laggiù in fondo, la Terra che si allontanava velocemente, sempre più piccola, fino a scomparire.  La mamma piangeva.

-Ti capisco, mamma. Anch’io sono triste perché lascio i luoghi dove sono vissuta fino ad ora, gli amici, la casa, persino i paesaggi del nostro paese. Non so come sarà il nuovo Pianeta. Ma che altro si può fare? Sulla Terra c’è poco lavoro, noi donne non abbiamo più diritti, in casa, non avevamo pace né sicurezza. Dobbiamo trovare un’esistenza migliore, spetta anche a noi un po’ di felicità! –

All’arrivo, eravamo state accolte da un funzionario cortese e professionale. Dopo i primi convenevoli, egli ci aveva accompagnate nell’appartamentino che sarebbe stato la nostra nuova casa. Non era male. C’erano due stanze, un salottino, la cucina. L’arredamento era moderno e di buon gusto.

-Riposatevi per qualche giorno, prendete confidenza con questo vostro nuovo paese. Poi, comincerete a lavorare. – ci aveva rincuorate nel congedarsi.

Ero molto felice: d’ora in poi, sarei stata rispettata come persona e la mamma avrebbe avuto un po’ di tranquillità, senza dover sempre temere botte e scenate.

Mi avevano accennato che avrei lavorato proprio nell’ufficio che accoglieva le nuove arrivate: avrei dovuto indirizzarle secondo le loro capacità. Per i primi tempi, il capoufficio mi avrebbe aiutata.

Finalmente, dunque, era giunta la prima mattina di lavoro. Non vedevo l’ora, anche se ero un po’ timorosa perché non sapevo molto di quello che avrei dovuto fare in pratica.

Era appena arrivata una nuova astronave. Le ragazze formavano una lunga fila in attesa, davanti a noi. Noi controllavamo i loro documenti e i loro curriculum.

Cameriere, cuoche, badanti, segretarie, lavascale, tanti mestieri diversi… Davamo loro il documento di soggiorno e gli assistenti le accompagnavano ai capannoni prefabbricati con numerose stanzette dove avrebbero abitato.

Qualcuna accettava di buon grado, chissà da quale tragica situazione proveniva, ma altre non erano d’accordo sull’attività che veniva loro assegnata.

-Sulla Terra ero impiegata in banca, non voglio fare la cameriera! – aveva protestato una signora assai elegante.

-Sei venuta su questo Pianeta volontariamente, – le veniva risposto con pazienza da uno dei funzionari- adesso devi fare quello che serve qui, non ti puoi rifiutare. Fai parte di un grande Progetto di sviluppo dell’umanità. Le donne, specialmente, devono essere indirizzate perché siano davvero utili.

-Io ero insegnante, perché devo fare la cuoca? – diceva un’altra – Non ho neppure le competenze.

-Ogni donna, qui, deve fare la sua parte, per il progresso del Pianeta. L’insegnamento spetta ai maschi, dobbiamo preparare al meglio le nuove generazioni. Invece, abbiamo bisogno di cuoche.  Tu devi avere fiducia e credere in un grande Progetto per l’umanità di cui tu fai parte. –

Le signore si erano convinte. D’altronde, cosa avrebbero potuto fare? Tornare sulla Terra? E come?

Quindi, più o meno contente, le donne avevano accettato la loro destinazione. Ovviamente, se erano venute su K2-18 b, la maggior parte di loro aveva lasciato condizioni molto difficili sulla Terra.

Il capoufficio mi aveva aiutata in quella prima giornata con professionalità ed educazione. Niente a che vedere, per fortuna, con il mio capo sulla Terra!

Quando ero tornata a casa, però, la mamma non c’era più. Mi aveva lasciato un messaggio audio per dirmi che l’avevano mandata a vivere con un uomo e che presto ci saremmo incontrate.

Un uomo? Che uomo? Mia madre non conosceva nessuno su quel Pianeta!

La mattina dopo, avevo chiesto spiegazioni al nuovo capo.

-Dov’è mia madre? Non vivrà con me nel mio appartamento?

-Come avrai capito, in questo Pianeta, che noi abitiamo da poco, ci sono tanti bisogni. Ognuno di noi deve essere veramente utile perché tutto proceda per il meglio.

-Pensavo che mia madre avrebbe potuto lavorare…

-Certo. Considera quello che fa come un lavoro. Ci sono uomini soli che desiderano una compagnia ogni tanto e possono rivolgersi a qualsiasi ragazza piaccia loro. Le ragazze, allora, devono considerare un grande onore poter essere utili a un maschio! Ci sono uomini, però, che desiderano una compagnia stabile. Tua madre non è più giovanissima, è stata molto fortunata a trovare qualcuno che la volesse con sé. Potrà prendersi cura di lui per qualsiasi esigenza e così farà la sua parte e sarà contenta.

-Ma non conosceva quell’uomo e lui non conosce lei…

-Quando partite dalla Terra, noi esaminiamo la documentazione su di voi. Se qualcuna in particolare viene richiesta, la mettiamo subito a disposizione. Tua madre è ancora una bella signora ed è piaciuta al suo nuovo compagno.

-Ma le avete chiesto cosa ne pensa?

-Non ce n’è bisogno. Le donne vogliono sempre stare con un uomo. Ma non preoccuparti, presto la incontrerai e vedrai che sta benissimo. –

Per tutta la notte non ero riuscita a dormire. Dov’era mia madre? In che situazione l’avevo cacciata? Come avrebbe potuto vivere con un estraneo che non aveva mai visto prima? E cosa doveva fare per lui? Solo le pulizie o altro?

Quando eravamo arrivate, l’organizzazione ci aveva assegnato un appartamentino, quello dove io mi trovavo ancora. Avevo visto, però, che le altre donne, via via che si presentavano, venivano sistemate nei capannoni, tutte insieme, non negli appartamenti. Perché io ero stata privilegiata? E cosa voleva dire: “Ci sono uomini soli che desiderano una compagnia ogni tanto e possono rivolgersi a qualsiasi ragazza piaccia loro. Le ragazze, allora, devono considerare un grande onore poter essere utili a un maschio!” Anch’io potevo piacere a qualcuno e avrei dovuto dimostrami disponibile?

Non riuscivo a trovare una risposta e mi rigiravo nel letto.

Il giorno dopo, era giunta un’altra astronave e, quindi, ero stata molto occupata a decidere il futuro impegno di tante ragazze. Quasi tutte sembravano sollevate di aver lasciato la Terra e di ricominciare una nuova vita.

Ma era davvero una nuova vita? Iniziavo ad avere dei dubbi. Qualunque uomo, su quel Pianeta, poteva sceglierle per una “compagnia” temporanea. E se la prescelta si fosse opposta?

Per tutta la notte successiva, mi ero rifatta decine e decine di volte  quelle stesse domande.

Dove eravamo arrivate? In quale girone infernale?

Il giorno dopo, mi era giunto un altro messaggio audio da mia madre. “Stai tranquilla, figlia mia, cerca di badare a te stessa. Io sto bene.”

Nient’altro. Evidentemente, mia madre non era libera di parlare e neppure di mandarmi un’immagine per vedere effettivamente come stava! E non sapevo neppure dove si trovasse esattamente!

Cosa avrei potuto fare? Oltre al capo, in ufficio, c’era un altro funzionario che mi sembrava disponibile.

-Non capisco molte cose, qui. – avevo accennato.

-È normale, sei ancora una principiante. Ci vuole sempre un periodo di assestamento, quando si cambia completamente vita. – mi aveva risposto con un sorriso. Così, avevo provato a continuare la conversazione.

-Sento molto la mancanza di mia madre, ho avuto solo due messaggi audio, non so dove abiti…

-Tua madre è stata molto fortunata, ha subito trovato l’occasione più adatta per lei. Potrà contribuire allo sviluppo del Pianeta. Vedrai che presto anche tu sarai assorbita dal tuo nuovo ruolo e non ci penserai più.

-Sarò più assorbita da questo impegno di selezione del personale?

-No, questo non è il tuo vero ruolo. Serve solo per aiutarti ad ambientarti. Tu sei stata prescelta per dare alla luce la nuova classe dirigente del Pianeta.

-Che significa?

-Noi di questo gruppo dirigente siamo una razza superiore. Abbiamo bisogno di una discendenza superiore. Tu avrai il nostro seme e darai vita ai nostri discendenti.

-Non capisco.

-È semplice. Sarai inseminata e porterai a termine delle gravidanze di esseri superiori.

-Io? Perché io? Perché non una qualsiasi delle tante ragazze che arrivano?

-Sei una delle prescelte sulla Terra. Il tuo capo di allora ci ha garantito che, oltre che molto bella, sei sana e di buon carattere. Ha avuto un premio per averti indicata a noi.

-Ma lui non mi ha mai chiesto di venire su questo Pianeta…

-Certo. Ma ti ha fatto trovare più volte la nostra pubblicità, così tu sei arrivata. Non sei l’unica, poi, ti faremo conoscere le altre prescelte. Vedrai, ti troverai molto bene perché ti tratteremo con ogni cura, avrai il meglio di ogni cosa. Sei una ragazza fortunata. –

Quell’essere spregevole del mio capo mi aveva venduta, addirittura!

-E se mi rifiutassi? – avevo buttato là.

-Nessuno rifiuterebbe tanto privilegio!  Come sai, il Pianeta deve svilupparsi, bisogna essere tutti collaborativi. In caso di rifiuto, la persona sarebbe soppressa perché noi non vogliamo avere carceri o altri luoghi di pena. Qui, tutti devono essere liberi e felici.

-Come potrò dare vita ai vostri figli? Hai detto inseminata?

-Certo. Non ci sarà alcun rapporto con il donatore del seme, cioè uno di noi. I rapporti tra gli umani possono essere felici o infelici, possono coinvolgere i nuovi nati, influenzare il loro sviluppo. Noi non vogliamo questo. Tu sarai inseminata, nascerà un nostro erede di razza superiore. Finito l’allattamento, il bambino sarà educato da noi e tu non lo vedrai più. Così crescerà come noi vogliamo. Tu sarai pronta per un’altra inseminazione. Al massimo, però, partorirai due o tre bambini perché oltre questo numero non saresti più nelle condizioni ottimali.

-E dopo? Cosa farò?

-Potrai lavorare, come ora, oppure accompagnarti a un maschio se ti dovesse scegliere. Come ti ho detto, sei molto fortunata. Avrai tutto il meglio qui, cibo, assistenza medica, comodità, perché ti aspetta un compito superiore. –

Ecco. Qui, devono essere tutti liberi e felici, aveva detto. E che ero molto fortunata. Fortunata per essere schiava di questa presunta razza superiore. Per di più, ero solo un utero che essi avrebbero usato a loro piacimento. Un utero in affitto! E mia madre conviveva con qualcuno che non aveva mai scelto!

Per il momento, però, non potevo fare nulla. Ero solo una donna e sarei stata soppressa.

Con il tempo, avrei trovato una qualche soluzione, una qualche possibilità di fuga. Per me e mia madre. Se fosse stato possibile. Avrei costruito un sogno che ci avrebbe portate lontano.

Ma non sapevo quando e non sapevo dove.

Racconto tratto dal libro: “Che te ne fai di un’altra femmina?”

prof. ssa Renata Rusca Zargar

blogger: https://www.senzafine.info/

Un angolo di scrittura con scrivania in legno vintage
Un rifugio creativo dove le parole prendono forma nel silenzio.

Lu scarparu mesciu R.” aveva la sua bottega proprio di fronte a casa di mia nonna, e mi incuteva sempre una certa soggezione, con quell’aria dura e concentrata, tipica degli artigiani di una volta.

La saracinesca della sua bottega, sempre aperta a metà, sembrava pesantissima, ma lui la sollevava con una facilità tale da farmi immaginare che possedesse una forza incredibile, quella di un gigante. E, in effetti, nella mia fantasia di bambino, mesciu R. era proprio un gigante dai lineamenti severi, con un pancione attraversato da larghe bretelle che sorreggevano il grande pantalone di panno scuro, tenuto in vita anche da una cintura di cuoio consumata dal tempo.

La sua figura mi intimidiva, e ero certo che anche gli altri bambini, con i quali condividevo i giochi di strada, provassero lo stesso timore. Il suo atteggiamento austero e la voce grossa bastavano a farlo sembrare un’autorità, una persona da rispettare senza condizioni. Allora, quando vidi il film, lo associai alla figura di Mangiafuoco del Pinocchio di Comencini: imponente, con uno sguardo che sembrava leggermi dentro, ma privo di quella lunga e folta barba che gli avrebbe conferito un’aria ancora più autoritaria.

Era sempre al lavoro, con una manciata di chiodini stretta tra le labbra, pronti per essere battuti con forza nella suola delle scarpe da quel martello affascinante, con una punta smussata a forma di becco d’anatra da un lato, e rotonda, leggermente bombata, dall’altro. Indossava un grande grembiule di cuoio e tela di jeans, costellato di macchie di mastice giallo, dal tipico odore di solvente che si mescolava all’aroma intenso del cuoio e della pelle delle scarpe da riparare, ammucchiate in un angolo sotto lo scaffale, dove teneva quelle già finite, con le forme di legno infilate. Stringeva la scarpa tra la mano sinistra e la pancia e, con precisione e abilità, ne rifiniva i bordi della suola con un trincetto affilato come un bisturi.

Sul “bancareddru”, che gli arrivava all’altezza degli stinchi e portava i segni di anni di lavoro, macchiato dai vari colori del lucido delle scarpe, erano ammucchiati antichi attrezzi di ferro con manici di legno scampanati all’estremità superiore. Per me, questi utensili erano veri e propri oggetti del desiderio, dal fascino irresistibile. Si potevano osservare martelli, pinze, punteruoli, aghi dritti e curvi, spaghi di diversi colori, chiodi e chiodini, e varie spazzole, ognuna con le setole sporche di un colore, alcune per scarpe nere, altre per marroni, altre ancora blu o color ciliegia.

Poi c’era la mola, bagnata da un rivolo d’acqua, che girava instancabile mentre affilava il trincetto. Accanto, la macchina per lucidare e raspare, con la forma a doppio fuso orizzontale. Una volta accesa, iniziava a roteare emettendo un leggero suono, quasi piacevole, che si trasformava in rumore con l’aumentare della velocità, riempiendo tutto lo spazio, per poi diminuire e spegnersi lentamente quando la macchina si fermava del tutto.

Accanto alla “siggiteddra” impagliata, ricoperta da pezze che fungevano da cuscino, dove mesciu R. sedeva per lavorare, c’era il piede di ferro su cui era solitamente infilata una scarpa o un vecchio scarpone contadino da riparare. Poco più in là, un po’ in disparte, c’era la macchina da cucire per il cuoio, silenziosa ma pronta all’uso.

Nell’angolo più buio della bottega si intravedevano le damigiane di vetro verde scuro, colme di aceto, con la base avvolta nella rafia e chiuse da un grande tappo cilindrico di sughero. Nonostante fossero ben tappate, l’odore pungente dell’aceto si diffondeva nell’aria, mescolandosi agli aromi più dolci della bottega. Accanto, erano poste la botte del vino, bottiglie vuote, capasoni di varie dimensioni, la “menza” per conservare le olive nere e un grande contenitore di latta, “lu zingu”, poggiato su quattro blocchetti di tufo, con un coperchio particolare: una parte fissa e una apribile, da cui si pescava, con un mestolo di rame, l’olio da travasare nelle bottiglie. Il recipiente, evidentemente riparato con toppe di latta rettangolari saldate dallo stagnaro, custodiva l’olio d’oliva prodotto con i frutti degli ulivi secolari, spesso tramandati di generazioni in generazione.

Fuori, la bicicletta di mesciu R., con un grande sellino adattato alla sua stazza, era appoggiata al muro scrostato.

La luce del sole penetrava nella bottega, riempiendo l’ambiente di un caldo colore dorato che lo rendeva accogliente e faceva risplendere anche la debole luce della lampadina a incandescenza, sempre accesa, avvitata a una portalampada di ceramica. Questo pendeva dal soffitto, sostenuto da una piattina bianca elettrica, fissata al muro con chiodini disposti a distanza regolare, che arrivava fino al centro del soffitto. Tra l’alternarsi delle ombre e i fasci di luce, le particelle di polvere si rincorrevano nell’aria.

Era un mondo fatto di odori intensi e di suoni ritmici, quasi ipnotici, quelli dei colpi di martello che scandivano il lavoro, mentre dai pezzi di cuoio e pelle, sotto le grandi mani esperte di mesciu R., prendevano forma le scarpe buone della festa, destinate a durare nel tempo.

Ero sempre un po’ timoroso, ma la curiosità e il fascino che quella bottega esercitava su di me mi convincevano che non c’era nulla da temere. Ogni volta che andavo a casa di mia nonna, non riuscivo a resistere alla tentazione di fermarmi a osservare affascinato mesciu R., mentre lavorava le suole. Quando sollevava lo sguardo dalla scarpa, mi canzonava con il soprannome di mio nonno paterno, “lu Frasca”, lasciandomi capire che, nonostante l’apparente severità, non c’era davvero nulla da temere. Sapevo, in fondo, che nonostante la mia vivacità di bambino, ero sempre il benvenuto nella sua bottega.

Ancora oggi, quelle emozioni di rispetto e ammirazione, che provavo da bambino nella bottega di mesciu R., riaffiorano dentro di me, intatte, ogni volta che incontro persone che, con passione, dedicano se stesse al proprio lavoro, offrendo il meglio di sé agli altri senza mai dimenticare dell’unicità altrui.

Joseph Zurlo

 

I bambini

I bambini forse non amano studiare, loro

preferiscono giocare fare bolle di sapone,

fantastici castelli di sabbia e di cartone.

Ai bambini piacciono i colori,

cercano sorrisi perché a loro non piace stare soli,

loro amano le storie,

gli abbracci e il profumo dei buoni fiori.

I bambini amano sognare, fantasticare…

a loro non servono i denari,

magari chiedono regali e fanno pure dei capricci,

ma solo perché vogliono capire.

I bambini non provano rancori,

hanno fiducia di chi gli vuole bene,

rivolgono lo sguardo a chi li sa ascoltare.

I bambini cercano carezze,

non giudicano i nostri errori,

anche se i loro occhi, a volte, incontrano gli orrori.

I bambini pregano il Signore,

perché loro riconoscono l’Amore e,

quando stanno male,

fanno amicizia persino col dolore.

 

Giuseppe D’Anna

 

I giovani innamorati

Mi commuovono

Si stringono

come fossero perduti

Appaiono così forti

e così puri,

dall’energia che scorre loro dentro.

Traspare amore

dallo sguardo

ed è un tutt’uno

di spirito e di corpo.

Germoglia potente

e naturale,

come le foglie,

quando

il sole le chiama alla vita

e di linfa le percorre.

Così i ragazzi innamorati

come virgulti

allacciati intorno ai rami

volano in alto.

Ancorati alle zolle

ma con ali spiegate verso il cielo.

Elisabetta Fioritti

Tutte le opere citate e gli estratti presenti in questo articolo sono stati forniti direttamente dagli autori, che hanno autorizzato personalmente la loro pubblicazione.

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