Approfondimento sul versante psicologico e culturale del fenomeno.
Dal mondo- Spesso le donne vittime di violenza tendono a sentirsi responsabili e meritevoli delle condotte abusanti e maltrattanti perpetrate nei loro confronti. Cercano quindi, di cambiare la condizione tossica nella quale vivono, variando il proprio atteggiamento. L’ attribuirsi la colpa di quanto avviene diventa cosi, un meccanismo di difesa inconscio rispetto alla consapevolezza della dolorosa assurdità in cui la relazione è precipitata. Un ovvio effetto di tutto ciò è raffigurato dalla scomparsa, della certezza di discernimento e di giudizio e dalla mancanza di una certa valutazione della realtà.
L’ambiente che ci circonda, l’ambito familiare e lavorativo, la nostra realtà condivisa, alimenta di continuo il nostro mondo interiore e la nostra realtà psichica, fatta anche di sogni e riflessioni. Quando vi è una diminuzione della condivisione con gli altri, quando la realtà tangibile si mostra ostile e al contempo indecifrabile, quando non basta un piano di raffronto, i pensieri non sono più acuti, vi è insicurezza e confusione e si può perdere, seppure solo temporaneamente, la capacità di fare una oggettiva valutazione della realtà. Diventa interessante citare quella che Giuliana Ponzio, autorevole autrice, definisce “perdita del punto di vista”.
Riuscire a conservare il proprio punto di vista implica consapevolezza e capacità di scelta, vuol dire mantenere intatta la propria identità; perderlo, non riuscire più ad essere sicure di nulla, essere indotte a pensare che solo l’altro sia il detentore della verità significa diventare deboli e incerte, muoversi in un territorio tentennante, perdere consistenza fino a frantumare la propria identità. Eppure, paradossalmente, questa perdita diviene necessaria per sopravvivere in un contesto di maltrattamenti, è un accadimento interno di cui le donne non sono consapevoli, avviene lentamente, a piccole dosi, mascherato, occultato e subdolamente nascosto dalla relazione affettiva.
Una motivazione per cui le donne smarriscono il proprio punto di vista, ossia la sensatezza di giudizio su ciò che sta succedendo, è designata dalla segregazione in cui spesso la relazione abusiva le ha relegate. Ma non solo! Di frequente, il senso di protezione innato spinge loro a tutelare il proprio compagno/carnefice, quasi come se si trattasse di un figlio. E’ come se la donna ricevesse da quest’ultimo un ruolo stabilito; diviene un suo oggetto; un oggetto da usare a proprio piacimento!
La violenza contro le donne, seguendo la Dichiarazione dell’ONU n. 54/134 può essere qualificata come: “… ogni atto di violenza che porti come risultato, o che possa potenzialmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.
Nelle sue varie espressioni, si sviluppa principalmente nell’ambito familiare e si configura come socialmente trasversale, poiché attraversa ogni strato sociale, non solo le classi svantaggiate da un punto di vista economico e culturale.
Finora nessuna ricerca è riuscita a trovare dei fattori peculiari da utilizzare come indicatori di rischio per quel che concerne la tipologia del violento o del maltrattatore, rendendo impossibile stilarne un profilo per etnia, età, status sociale o condizioni economiche e culturali di provenienza: questo significa che la violenza contro le donne non mostra quei chiari confini delineati per altre forme di violenza; difatti, non è individuabile e circoscrivibile a luoghi precisi o determinati contesti sociali e neppure ascrivibile a peculiari fattori socio-economici.
Il femminicidio va dunque inteso come una qualunque forma di violenza condotta in maniera sistematica sulle donne in base ad un impianto ideologico di matrice patriarcale, al fine di continuare la subordinazione o di annichilire l’identità della donna per mezzo dell’asservimento fisico o psicologico, tanto da portare alla “schiavitù” o alla morte.
Purtroppo, numerosi casi di violenza sulle donne troppo spesso riempiono le pagine di cronaca, ed il femminicidio può essere considerato una forma estrema di violenza di genere che si sviluppa particolarmente “tra le mura domestiche”, ossia in un contesto attinente la sfera intima e privata, anche se trova di fatto la sua origine proprio nella società. Il sistema patriarcale valuta la donna in base al ruolo, alle funzioni di procreazione e cura, oltre che quella sessuale: la donna viene valutata come oggetto piuttosto che un individuo dotato di libera soggettività.
All’interno di un simile contesto dove chiaramente sussiste uno squilibrio di potere, l’uomo, specialmente quello che coltiva una relazione più intima con la donna, sembra sentirsi in diritto di compiere maltrattamenti ed abusi, giungendo persino all’atto efferato dell’omicidio. L’apertura delle istituzioni e dell’opinione pubblica verso tale fenomeno è cresciuta negli anni. In tutti i paesi occidentali sono stati realizzati centri di ricerca permanenti che divulgano annualmente, anche on-line, statistiche e previsioni sul fenomeno, e sono stati creati servizi di accoglienza e aiuti alle vittime. Organismi internazionali come Unifem, il programma Daphne della Commissione Europea, Amnesty International e molti altri hanno favorito campagne e azioni di sensibilizzazione sulla violenza contro le donne.
La violenza, con la sua carica di prepotenza e sopraffazione, ha aperto infatti uno squarcio sulla comprensione di altri fenomeni sociali: le compagini familiari, gli abusi sui minori, il perfezionamento delle politiche sociali, l’affrancamento delle donne, la devianza e la delinquenza in ambito domestico, i servizi di accoglienza e cura delle vittime e tanti altri. La convinzione di fondo è che per cambiare lo status quo, sia necessario indirizzare l’attenzione su cultura ed educazione.
Risulta necessario fornire nuove chiavi di lettura per intraprendere nuove e più corrette relazioni tra uomo e donna, improntate al dialogo e non certo basate sulla violenza e l’intimidazione.
Dunque, è possibile considerare il femminicidio un fatto culturale: per sradicarlo è essenziale abbattere la forma mentis patriarcale che inquadra la donna soltanto come figura legata a ruoli tradizionali e l’immagine della stessa come un oggetto sul quale poter esercitare il proprio adamitico potere. Indubbiamente, il fenomeno è legittimato dalla assenza di una cultura del rispetto e della libera scelta, scelta di andare via quando un rapporto marcisce, scelta di andare via da una condizione di stabile e costante tossicità, la scelta di abbandonare un ambiente ormai inquinato e non piu’ sanabile.