di Domizia Di Crocco, giornalista e autrice satirica
Viviamo in un’Italia dove la politica ha smesso di essere rappresentanza e ha cominciato a rappresentarsi. Non è un gioco di parole: è un cambio epocale. La maschera, da sempre simbolo della commedia e del potere, è tornata in auge. Solo che oggi non è fatta di cuoio o cartapesta, ma di slogan, social e filtri Instagram.
C’è chi urla nei talk show più di quanto legiferi in Parlamento. Chi cambia più outfit che opinioni. Chi misura la propria influenza non in termini di voti, ma di visualizzazioni. La politica spettacolo, che una volta era il lato grottesco del potere, oggi è diventata la normalità.
Le maschere sono ovunque. La ministra imprenditrice con l’eyeliner perfetto e la retorica da spot pubblicitario. Il sottosegretario che insulta in diretta e poi chiede scusa via post. L’onorevole che promuove il suo libro autobiografico mentre twitta contro la cultura “di sinistra”. È un carnevale permanente, dove il confine tra ruoli pubblici e personaggi è sempre più sottile.
Ma cosa resta sotto le maschere? Poco o nulla. La sostanza viene sacrificata sull’altare dell’apparenza. La profondità è un rischio, la complessità un nemico. Tutto deve essere facile, veloce, virale. La maschera funziona, perché è una scorciatoia emotiva: rassicura, diverte, seduce. Ma non governa, non riforma, non costruisce.
In questa rappresentazione continua, il cittadino rischia di diventare solo spettatore. O peggio: tifoso. Così, invece di chiedere risposte, acclama il personaggio che più lo somiglia, che più lo intrattiene. E il potere, che dovrebbe rispondere, si limita a recitare.
Smascherare non basta. Bisogna tornare a vedere i volti veri, quelli che sanno anche sbagliare, dubitare, tacere. E pretendere dalla politica non un selfie, ma un progetto. Non un like, ma un’azione.