Infanzia violata: storie, leggi e percorsi di rinascita per i minori
Di Yuleisy Cruz Lezcano
La storia del riconoscimento dell’abuso all’infanzia e all’adolescenza è, purtroppo, una storia recente. Fino a pochi decenni fa, la violenza sui minori – fisica, psicologica o sessuale – era spesso taciuta, minimizzata o relegata al silenzio delle mura domestiche. Soltanto tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, anche grazie a movimenti culturali e psicologici, si è iniziato a parlare apertamente di abuso, a definire i suoi contorni e a strutturare risposte istituzionali.
L’abuso non è solo un atto: è un’interruzione della fiducia, uno strappo nell’identità, un trauma che lascia ferite profonde. E può manifestarsi in molte forme: maltrattamento fisico, trascuratezza, abuso psicologico, sfruttamento sessuale. Secondo la Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza (1989) e la legislazione italiana, ogni atto che provochi danni fisici o psichici, sofferenze, sfruttamento o grave trascuratezza in danno di un minore è configurabile come abuso.
In Italia, la normativa di riferimento comprende: il codice Penale, art. 572 (maltrattamenti), art. 609 bis e seguenti (violenza sessuale, atti sessuali con minori), art. 600 (riduzione in schiavitù), art. 600 ter (pedopornografia); Legge 66/1996 e successive modifiche; Legge 172/2012, che recepisce la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale.
Tra le forme più gravi e distruttive di abuso ci sono: lo sfruttamento sessuale, la pedopornografia, (crimine in crescita anche a causa della diffusione di contenuti online e piattaforme anonime) e la prostituzione minorile. La crescente complessità del fenomeno della violenza, in particolare quella rivolta a minori, donne e soggetti vulnerabili, richiede risposte coordinate, continue e capaci di connettere le molteplici dimensioni in gioco: sociale, psicologica, sanitaria, educativa, giuridica. All’interno di questa sfida, emerge con forza la necessità di inserire stabilmente e in maniera strutturata la figura dell’infermiere di comunità con formazione specifica o master nell’ambito della violenza. Una figura professionale capace di abitare i territori, di lavorare a stretto contatto con le famiglie, di fare ricerca attiva sul campo, raccogliere dati, rilevare segnali precoci di rischio, e contribuire in maniera sostanziale alla prevenzione e alla presa in carico delle situazioni di abuso. L’infermiere di comunità non è una figura nuova, ma è ancora sottoutilizzata nei contesti legati alla prevenzione della violenza. Dotare questo professionista di una specializzazione o master in tematiche legate alla violenza e all’abuso, consente di intercettare precocemente i segnali di rischio, anche in ambienti informali o extra-clinici; creare ponti di fiducia con famiglie vulnerabili o reticenti a rivolgersi ai servizi; monitorare territori e nuclei a rischio, costruendo banche dati territoriali affidabili; collaborare attivamente con i servizi sociali, i pediatri di libera scelta, gli psicologi e le forze dell’ordine, garantendo continuità e fluidità nelle segnalazioni; fare educazione sanitaria e affettiva nelle scuole, nei centri di aggregazione, nei consultori.
Bisogna dire che il fenomeno della violenza – in particolare quella sui minori – è spesso gestito da una pluralità di soggetti: autorità giudiziaria, servizi sociali, scuole, forze dell’ordine, psicologi forensi, educatori, comunità educative, ma oltre a mancare la figura dell’infermiere specializzato nel fenomeno, manca un coordinamento strutturato per affrontare la frammentazione delle risposte, così da evitare il rischio di rendere inefficaci anche gli interventi più qualificati. In questo contesto, la figura dell’infermiere di comunità specializzato può: fungere da snodo operativo tra i servizi, fornendo dati aggiornati e strutturati, fondamentali per orientare le azioni di prevenzione e intervento, facilitando l’attivazione tempestiva delle reti nei casi di urgenza. Il coordinamento poi potrebbe essere a carico di una cabina di regia. Pertanto propongo la creazione o il potenziamento.
Osservatorio nazionale/interregionale sulla violenza, che abbia il compito di: coordinare le azioni delle varie figure coinvolte sul territorio, oltre a monitorare gli standard di formazione e aggiornamento dei professionisti; raccogliere dati epidemiologici validati a livello regionale e integrarli con quelli nazionali, Valutare l’efficacia degli interventi e facilitare la comunicazione tra istituzioni, evitando sovrapposizioni o vuoti d’azione. L’osservatorio dovrebbe essere in grado di integrare i dati raccolti dagli infermieri di comunità, contribuendo a costruire un quadro realistico e aggiornato delle situazioni di rischio. Accanto all’osservatorio, si evidenzia l’importanza di costituire un albo professionale condiviso (registro nazionale o interregionale) delle figure che operano nel contrasto alla violenza. Questo strumento garantirebbe una maggiore trasparenza e riconoscimento delle competenze specifiche, oltre a la tracciabilità e affidabilità degli operatori coinvolti nei percorsi di protezione; accesso a formazioni certificate, supervisioni, aggiornamenti obbligatori.
Comunque, il contrasto all’abuso non può limitarsi al momento della denuncia o del processo: deve iniziare molto prima, nelle scuole, nei luoghi di aggregazione, nella formazione degli adulti significativi. Serve costruire una vera cultura della protezione, che riconosca nei bambini e negli adolescenti soggetti portatori di diritti, non oggetti di possesso.