Un team di archeologi australiani, guidato da Caroline Spry e documentato dalla rivista Australian Archaeology, ha recentemente condotto un’indagine sistematica sui misteriosi cerchi di terra presenti nei territori del Wurundjeri Woi-wurrung Country, nei pressi di Sunbury, a nord-ovest di Melbourne.
La ricerca ha chiarito l’origine, la funzione e la struttura dei cosiddetti Sunbury Earth Rings, complessi anelli di terra e pietra realizzati in un arco temporale compreso tra circa 590 e 1.400 anni fa (Spry et al., Australian Archaeology, 2025). Le analisi stratigrafiche e i rilievi geomorfologici hanno confermato che questi siti rimasero in uso fino al tardo XVIII secolo, in prossimità dell’arrivo dei coloni europei nella regione.
Attraverso un approccio interdisciplinare che integra archeologia, geomorfologia e raccolta di testimonianze orali, l’indagine ha permesso di documentare non solo le modalità costruttive, ma anche il contesto sociale, culturale e cerimoniale che circondava la loro realizzazione. I cerchi sono stati interpretati come elementi di un paesaggio culturale (cultural landscape) riconducibile alla relazione funzionale tra comunità indigene e territorio.
L’antico paesaggio di Sunbury: forme, tecniche e significati
I cerchi si trovano nella regione collinare di Sunbury, nello stato di Victoria, Australia, in un’area che, prima della colonizzazione europea, era abitata stabilmente dai Wurundjeri Woi-wurrung.
Per secoli, queste strutture circolari hanno attirato l’attenzione di esploratori e studiosi, senza che si riuscisse a fornire una spiegazione condivisa della loro origine. Alcuni li interpretarono come anomalie naturali, altri come costruzioni coloniali; entrambe le ipotesi sono oggi superate sulla base delle evidenze stratigrafiche (Heritage Victoria, 2024).
Le indagini recenti hanno mostrato che i cerchi furono costruiti mediante lo scavo selettivo del terreno e la disposizione regolare di pietre locali, adottando tecniche di modellazione del paesaggio che richiedevano un’accurata conoscenza del suolo e dell’ambiente. La preparazione del suolo comprendeva il livellamento delle superfici, la rimozione della vegetazione spontanea e la delimitazione mediante pietre, operazioni riconducibili a pratiche di gestione territoriale (indigenous land management).
Alcuni anelli evidenziano segni di riparazione o modifiche successive, indicando un uso prolungato e una trasformazione nel tempo dei criteri rituali e spaziali originari.
La precisione geometrica di molte strutture suggerisce un’intenzionalità simbolica, con riferimenti a esigenze cosmologiche e cerimoniali analoghi a quelli riscontrati in altri contesti tradizionali studiati da Eliade (Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, 1951) e Frazer (The Golden Bough, 1890).
Sunbury Earth Rings: centri cerimoniali e paesaggi rituali
Le prove materiali emerse dagli scavi, integrate dalle fonti orali raccolte presso la comunità Wurundjeri, suggeriscono che i cerchi di Sunbury funzionassero come spazi cerimoniali destinati a rituali di passaggio, riunioni comunitarie e segnatura simbolica del territorio.
Accanto agli anelli sono stati rinvenuti resti di focolari rituali, strumenti litici per la lavorazione di materiali vegetali e animali, e tracce di attività cerimoniali come la produzione di piumaggi ornamentali e la scarificazione rituale (Spry et al., 2025).
Tali elementi collocano i Sunbury Earth Rings all’interno di una tradizione di paesaggi rituali dinamici, dove il territorio agisce come elemento attivo nella costruzione dell’identità collettiva, secondo una concezione oggi nota come connection to Country.
La concezione indigena del “Country” e il valore dei cerchi
La cultura Wurundjeri Woi-wurrung concepisce il “Country” come un’entità viva, comprendente terra, acqua, cielo, piante, animali e storie ancestrali, secondo una logica integrata e circolare della realtà.
In questo contesto, i Sunbury Earth Rings non vanno intesi solo come artefatti materiali, ma come manifestazioni visibili di una rete di relazioni tra uomini, spiriti e paesaggio.
La notizia è stata diffusa con ampio utilizzo di retorica indigenista, suggerendo l’idea che il mondo mistico magico dei nativi fosse stato bruscamente alterato dall’arrivo dei coloni europei, tuttavia, l’analisi storica comparata suggerisce che il processo di perdita del significato originario dei rituali aveva avuto inizio ben prima dell’arrivo degli europei. Studi condotti su culture tradizionali prive di scrittura, come quelle documentate da Spencer e Gillen nell’Australia centrale (The Native Tribes of Central Australia, 1899) e da Marcel Griaule presso i Dogon dell’Africa occidentale (Dieu d’eau, 1948), mostrano che la trasmissione orale, in assenza di supporti analitici strutturati, tende naturalmente a produrre un progressivo svuotamento simbolico dei riti, trasformandoli in pratiche ripetitive svincolate dalla comprensione originaria.
Analogamente, osservazioni condotte da Lynette Russell (Unsettling Archaeology, 2012) evidenziano che molte cerimonie indigene australiane già in epoca pre-contatto presentavano caratteri di ritualismo meccanico e confusione circa i significati ancestrali.
Un patrimonio da decifrare
È quindi improprio attribuire ai processi di trasformazione storica legati alla civilizzazione europea la perdita del significato originario dei cerchi di Sunbury. Il fenomeno va inquadrato nella dinamica più ampia delle culture orali, dove la progressiva meccanizzazione dei gesti e l’atteggiamento superstizioso verso i luoghi sacri si sviluppano fisiologicamente nel tempo.
È proprio grazie all’approccio razionale, storico e analitico sviluppato dalla cultura occidentale che oggi possiamo tentare di ricostruire con metodo il senso autentico di queste credenze, oltre le stratificazioni della ripetizione inconsapevole e delle deformazioni cumulative.
Lo studio rigoroso dei Sunbury Earth Rings consente non solo una comprensione più profonda di una cultura antica, ma anche un superamento delle narrazioni mitizzanti contemporanee, restituendo ai siti cerimoniali il loro autentico valore storico e antropologico.
Oltre le mode: ripensare il senso autentico della scoperta
Nel commentare i risultati degli scavi di Sunbury, alcuni osservatori hanno suggerito che la piena comprensione dei cerchi sarebbe il frutto di un “approccio decoloniale” all’archeologia, come se solo attraverso questa lente ideologica fosse stato possibile valorizzare il patrimonio culturale indigeno. Questa affermazione, oltre a risultare storicamente e metodologicamente forzata, tradisce una scarsa conoscenza della vera storia dell’antropologia e del pensiero critico occidentale.
Fin dalle origini, l’antropologia si è fondata proprio sull’osservazione diretta delle culture indigene e sulla raccolta sistematica di miti, riti, tecniche e forme di organizzazione sociale. L’incontro con l’alterità non è mai stato soltanto un’operazione di dominio o di riduzione, ma ha generato una profonda trasformazione interna del pensiero occidentale. È attraverso il confronto critico con i popoli considerati “primitivi” che l’Occidente ha cominciato a riflettere sui propri limiti, a relativizzare le proprie categorie e a interrogarsi sulla presunta universalità dei propri modelli culturali.
Già nel XVI secolo Montaigne, parlando dei cannibali del Brasile, suggeriva che il concetto di “barbarie” dipendesse più dallo sguardo di chi giudica che dall’oggetto giudicato. Nel XVIII secolo Rousseau, nel suo celebre Discorso sull’origine della diseguaglianza, utilizzava la figura del “buon selvaggio” non per idealizzare le società indigene, ma per denunciare le storture della civiltà europea. E in tempi più recenti, l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss ha mostrato come il pensiero mitico dei popoli senza scrittura sia dotato di una logica rigorosa e non inferiore a quella delle società industriali.
La verità storica è che l’Occidente, lungi dall’ignorare o cancellare sistematicamente le culture indigene, ha spesso tratto proprio dall’incontro con esse una lezione di relativismo, di autocritica e di ridefinizione epistemologica. Senza il confronto con l’alterità, non avremmo avuto l’antropologia culturale, la sociologia critica, né la stessa capacità di problematizzare concetti come “progresso”, “sviluppo” e “civiltà”.
Applicare oggi etichette come “decoloniale” a ogni tentativo di comprensione delle culture antiche rischia di semplificare drammaticamente la complessità di questo lungo processo storico. Non è grazie a un gesto ideologico recente che i cerchi di Sunbury sono stati compresi, ma grazie a un metodo che affonda le radici nella tradizione della ricerca scientifica occidentale: osservazione rigorosa, raccolta delle testimonianze orali, analisi stratigrafica dei reperti, confronto con le cosmologie tradizionali, rispetto per la cultura indigena come oggetto e soggetto di conoscenza.
Il rispetto per le tradizioni aborigene non nasce da una “decolonizzazione” a posteriori, ma dalla maturazione storica di un pensiero che ha saputo riconoscere il valore universale della diversità culturale. Parlare di “approccio decoloniale” senza distinguere tra contesti e metodi rischia di oscurare il vero merito della ricerca: quello di aver saputo integrare, senza cedere alla retorica, il sapere tradizionale con l’indagine scientifica, riportando alla luce non solo strutture materiali, ma mondi simbolici complessi e vitali.
La scoperta dei cerchi di Sunbury, dunque, va collocata in un percorso più ampio e più profondo: quello di una lunga storia di riflessione sull’alterità, in cui il pensiero occidentale ha saputo trasformare il confronto con l’altro in uno strumento di conoscenza di sé. Ridurre tutto ciò a una moda linguistica contemporanea sarebbe un tradimento sia della ricerca scientifica sia del valore autentico delle culture indigene, che non hanno bisogno di essere “salvate” da etichette ideologiche, ma di essere riconosciute nella loro intrinseca dignità storica, culturale e spirituale.
Articolo pubblicato originariamente in inglese.