A cinquant’anni dall’omicidio di Sergio Ramelli, la politica rimanda la risposta al malessere sociale
Il 29 aprile segna l’anniversario della morte di Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte della Gioventù ucciso a Milano nel 1975, vittima di un agguato politico durante gli anni di piombo. A cinquant’anni da quell’assassinio, la cronaca ci consegna una nuova pagina di violenza giovanile: la sparatoria avvenuta a Monreale, in provincia di Palermo, dove una rissa tra ragazzi si è trasformata in una tragica esecuzione. Tre vittime e l’autore del gesto che proviene dal quartiere Zen di Palermo, un’area simbolo di degrado e disagio sociale.
Cosa è cambiato, davvero? Se negli anni Settanta la morte di Ramelli segnò un punto di non ritorno, in un’Italia lacerata dalla lotta armata, dal terrorismo e da profonde tensioni ideologiche, oggi la violenza giovanile nasce da un malessere sociale radicato, alimentato da povertà, disoccupazione e da una diffusa mancanza di opportunità. Secondo l’Istat, il 41% dei giovani italiani vive in condizioni di disagio socio-economico. Nello Zen, la disoccupazione giovanile sfiora il 60%. In questi contesti, l’emarginazione diventa la norma, mentre la criminalità organizzata o la violenza diventano spesso l’unico linguaggio possibile.
Le tre giovani vittime della sparatoria di Monreale (ph web)
I dati confermano l’allarme. Nel 2022, secondo la Procura per i minorenni di Palermo, i reati commessi da minori sono aumentati del 25%. Le violenze sessuali sono cresciute del 24%, quelle aggravate del 39% e gli atti sessuali con minori del 9%. È un’emergenza educativa prima ancora che penale. Eppure, le risposte della politica continuano a concentrarsi su misure repressive, come il “Decreto Sicurezza” del 2018, rivelatosi nel tempo inefficace. Manca un investimento serio sulle cause strutturali del problema, come il rafforzamento delle politiche di integrazione, l’accesso alla formazione e un’effettiva inclusione sociale.
In alcuni territori, però, esperienze positive dimostrano che un altro approccio è possibile. A San Giovanni a Teduccio, quartiere di Napoli, l’insediamento dell’Apple Developer Academy ha favorito inclusione e sviluppo economico. A Torino, il progetto “Loving the Alien” ha coniugato rigenerazione urbana e inclusione sociale attraverso attività culturali rivolte ai più fragili. A Milano, l’iniziativa M.A.N.I. ha utilizzato l’arte urbana per riqualificare aree degradate coinvolgendo attivamente i cittadini. Sempre a Napoli, “Periferia Giovane” ha promosso percorsi formativi e creativi ai ragazzi dei quartieri più difficili. Sono esempi concreti di politiche partecipate, integrate, fondate sull’ascolto e sul protagonismo delle comunità locali.

Palermo, quartiere Zen: simbolo di degrado e disagio sociale (ph web)
“Tuttavia, il vero nodo è culturale ed educativo” interviene Fabio Desideri, segretario nazionale di Pensiero Popolare Italiano. “Dove viene meno il senso di comunità, si rafforzano isolamento, rabbia e frustrazione. Le misure di sicurezza da sole non possono arginare un fenomeno che nasce dal tessuto stesso delle nostre città. Dove mancano scuole aperte, spazi aggregativi, educatori e presidi sociali, dove il senso di comunità è venuto meno, si fa largo la legge del più forte e l’illegalità trova terreno fertile. In questo vuoto, i modelli veicolati dai social, e da una certa narrazione mediatica, anziché promuovere solidarietà e inclusione, esaltano l’aggressività, l’arroganza e il successo a ogni costo” conclude Desideri.
Il parallelo tra l’omicidio di Ramelli e la sparatoria di Monreale non riguarda solo la violenza in sé, ma il fallimento di un sistema incapace di garantire futuro a chi vive ai margini. È il frutto di decenni di politiche sociali inadeguate e di una crescente disconnessione tra il centro e le periferie, tra le istituzioni e la realtà quotidiana. Servono politiche strutturali di lungo periodo, investimenti in formazione, lavoro, servizi sociali, cultura ed educazione civica. Serve restituire credibilità e presenza all’apparato pubblico nei territori dimenticati.
A cinquant’anni da quell’omicidio, la violenza giovanile non può più essere considerata una fatalità. È il segnale inquietante a un sistema miope, che ha scelto di ignorare i sintomi di un malessere profondo.