di Lorena Fantauzzi
In Italia, non è raro che il cliente stringa la mano all’avvocato, gli dica “grazie” e poi, quando riceve la parcella, gli rivolga la schiena. Anzi, peggio: lo trascini in giudizio. Con un’accusa grave, infamante, difficile da accettare per chi esercita una professione che è prima di tutto una missione civile. L’accusa è quella di responsabilità professionale. E il movente – paradossale ma frequente – è spesso la pretesa di un compenso legittimamente maturato.
Chi bazzica le aule dei tribunali sa che esiste una nuova categoria di contenziosi: i processi contro gli avvocati. Sono cause che esplodono – guarda caso – dopo la conclusione del mandato. Quando il difensore chiede il pagamento per l’attività svolta, talvolta anche dopo aver ottenuto risultati dignitosi, o comunque aver combattuto fino in fondo, con le armi del diritto, contro i mulini a vento delle pretese impossibili del cliente.
Secondo la Corte di Cassazione (Sez. II, Sent. n. 7618/1997), l’avvocato non è un indovino. L’obbligazione che assume non è di risultato, ma di mezzi. Deve esercitare il mandato con la diligenza del “professionista medio”, ex art. 1176, co. 2, c.c. E solo se sbaglia in modo grave – con imperizia manifesta o ignoranza crassa di principi elementari – allora sì, potrà essere chiamato a rispondere del danno.
Ma questa verità giuridica è spesso ignorata da chi, scontento per un verdetto o per la realtà che non ha dato ragione alle proprie illusioni, si aggrappa alla speranza di capovolgere la narrazione: da debitore a vittima.
E così si moltiplicano le domande di risoluzione del contratto per inadempimento (art. 1453 c.c.), fondate su nulla. Senza provare il danno, senza dimostrare alcun nesso causale tra l’operato del difensore e la perdita della posizione giuridica. La Cassazione è chiara: “La responsabilità dell’avvocato richiede la prova del danno, della condotta colposa e del nesso causale” (Cass., Sez. III, Sent. n. 9238/2007). Non bastano parole, sospetti, o il semplice insuccesso processuale.
Eppure, in tanti ci provano. Con un’azione riconvenzionale, a volte anche solo per differire la condanna a pagare. “L’avvocato non ha informato!”, gridano. Ma i fascicoli processuali raccontano un’altra storia: raccomandate, e-mail, bozze condivise, testimonianze concordate. E ancora: capitoli di prova scritti a quattro mani, testimoni indicati dal cliente. Prove. Non chiacchiere.
C’è poi chi invoca il dovere d’informazione come se fosse un alibi per ogni esito amaro. Ma la Cassazione, ancora una volta (Sez. II, Sent. n. 16023/2002), ha chiarito: l’obbligo è assolto se il cliente ha partecipato, ha firmato, ha risposto alle comunicazioni. E soprattutto, ha avuto voce nel processo.
Solo in un caso – uno solo – l’avvocato può rispondere anche per colpa lieve: quando redige un parere stragiudiziale che deve orientare le scelte del cliente. Lì, sì, l’obbligazione diventa di risultato. E il legale deve fornire uno strumento chiaro, utile, concreto, pena l’assunzione di una responsabilità piena (Cass., Sez. II, Sent. n. 16023/2002).
Ma fuori da questo perimetro, il giudizio di valore sull’operato dell’avvocato non può trasformarsi in una caccia all’errore. Il diritto è complesso, la giustizia è fallibile, e il processo è, per definizione, un territorio incerto.
Scriveva il prof. Giuseppe Chiovenda, padre del processo civile moderno: «Il processo è lo strumento per attuare la volontà della legge; non per piegare la realtà al desiderio del cliente».
Eppure, nel 2025, non pochi clienti fanno il contrario: pretendono che la legge segua la loro volontà e se così non è, incolpano l’avvocato. Lo accusano. Lo trascinano davanti al giudice. E, nel frattempo, non pagano.
Ma c’è un argine, una diga a questa deriva. È la parola scritta. Il contratto di patrocinio firmato in forma scritta, come prescritto dall’art. 2233, comma 3, c.c., e ribadito dalla Cass., Sez. II, Sent. n. 717/2023. Lì, nero su bianco, ci sono il compenso, l’attività pattuita, i limiti del mandato. Lì, il professionista trova tutela. Lì, l’avvocato torna ad essere una figura rispettata e non un parafulmine.
Perché, diciamolo, questa professione non è un mestiere come un altro. È una lotta solitaria contro l’ingiustizia. E anche quando la battaglia non si vince, l’avvocato, se ha combattuto bene, merita rispetto. E compenso.

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