Ci troviamo nell’estrema periferia di Napoli est, ospiti del Centro Polifunzionale “Ciro Colonna”. È primavera e a Ponticelli si è appena svolto il primo convegno nazionale sulla pratica politica e il senso di comunità.

Un convivio aperto e libero. Un movimento pensato come luogo attivo permanente di cultura e di incontro, un ambiente in cui ciascuno ha sentito la necessità di occuparsi responsabilmente di sé e delle proprie idee e potersi immaginare, in questo modo, parte di una collettività che va costruendosi più solida e sana, integra, meno frammentata e fragile.

Adulti e persone più giovani, arrivati da tutta Italia, hanno condiviso momenti di riflessione sull’arte-dello-stare-insieme e sull’opera dell’imparare a vivere-in-relazione. Sono state giornate intense in cui le questioni affrontate hanno donato un senso inedito al quartiere e uno speciale nutrimento: il poter discutere e parlare, attraverso il confronto reciproco, di relazioni umane e dell’effetto che lo-stare-in-relazione ha sulla società e sul pensiero collettivo.

Il convivio è stato organizzato affinché piccoli gruppi di adulti e più giovani potessero riunirsi intorno a un tavolo di lavoro con il desiderio di avanzare un’esperienza di sovvertimento dentro le mura di un quartiere a rischio, e poterne avere cura perché l’esperienza vissuta potesse rimanere nel tempo, sedimentandosi. Il gruppo di discussione si è concentrato sul tema delle “relazioni non-violente” e sulla conquista di relazioni “eque, sane e democratiche”.

Si è cercato, durante il confronto, di sostare un passo prima dell’atto di violenza e di approfondire il tempo che precede la sofferenza e il disagio di chi sente di non avere altra scelta se non l’agire violento o il subire violenza. La riflessione si è rivolta sul sentimento dell’aggressività inteso come forza, energia e affermazione di sé. Ci si è chiesti cosa accade quando è l’aggressività che manca in chi agisce comportamenti violenti? Quando non è il surplus di energia aggressiva ma, al contrario, la sua penuria che diventa fonte di disagio e sofferenza?

Forse è possibile tenere nella mente questi interrogativi esclusivamente attraverso un’apertura critica e radicale del concetto stesso di aggressività, in modo da ribaltare il pensiero comune che, troppo spesso, utilizza la sua espressione soltanto come forza distruttiva. È stato proposto un pensiero che ha pesato, per certi versi, sulla comunità del convivio perché è penetrato sul senso dell’abitudine al dolore che alimenta la violenza e che è causa di legami perversi di dipendenza.

Questo processo di parola ha significato soffermarsi sulle cicatrici delle violenze multiple e ripetutamente subìte, situazioni emotive che attivano continuamente il ricordo che la violenza esiste e che, spesso, è una minacciosa presenza. Probabilmente, è l’isolamento in cui l’uomo si condanna che prende la forma di una solitudine aguzzina in cui l’altro viene sentito come un abitante che deruba ed espropria le cose buone del proprio mondo interno. Allo stesso tempo, invece, se l’aggressività è considerata come un affetto di legame e non di distruzione, potrebbe appartenere al progetto dell’uomo che evolve per il bene comune.

Il convivio si è concentrato, in particolare, sul disagio psichico dei più giovani, riconoscendo non più una problematica emotiva conflittuale e aggressiva, ma una complicanza affettiva che spinge verso un blocco dell’aggressività, nel senso della mancanza di una spinta vitale e affermativa di sé. Sono i giovani con una vita-in-borderless, per i quali diventa impossibile esprimere una reale aggressività sentita come una conquista per il proprio sé. È la smarginatura che diventa una condizione mentale vicina all’inumano e che, pure, manifesta la speranza che qualcosa possa nascere e costruirsi: uno spazio in cui il giovane può sentirsi dentro una mente adulta che gli permetta di fare esperienza e avvicinarsi alla propria aggressività come energia piena e non-violenta.

Una scena raccontata ha colpito profondamente: un gruppo di ragazzi, tra i 16 e i 18 anni, scrive una parola su un foglio bianco che rappresenti una relazione intima e affettiva. Molti scrivono una prima parola che subito dopo accartocciano e mettono in tasca. La parola era amore. Alla fine dell’incontro, la rivelano. L’immagine del foglio stropicciato, amore nascosto, rimanda al gesto profondo e istintivo di proteggere qualcosa di fragile.

Concludo pensando che a volte l’amore si sbriciola, affanna, e più diventa intimo più angoscia. È il sentirsi senza confini, mentre si cambia, che ci fa avvertire pericolosamente esposti, dentro un luogo in cui la possibilità di perdere una parte di sé diventa dolore reale. Han Kang, premio Nobel per la letteratura nel 2024, ci dice: “Quanto possiamo amare? Dov’è il nostro limite? E quanto dobbiamo amare per restare umani fino alla fine?”.

 

di Antonella Musella

 

Antonella Musella nasce a Napoli 43 anni fa. Attualmente vive e lavora a Napoli e a Roma. È psicologa e psicoterapeuta, esperta in clinica dell’adolescenza. Da molti anni lavora nei quartieri a rischio. Si dedica alla dispersione scolastica e al sociale. Di recente ha esteso la sua opera all’area della disabilità e delle neurodivergenze. Ama l’arte e la letteratura che usa come strumenti di lavoro