Rubrica settimanale del Corriere di Puglia e Lucania, Corriere Nazionale in collaborazione con ANIM – a cura di Marilù Murra
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Le parole sanno toccare corde profonde, evocare immagini, trasmettere emozioni che restano scolpite nel tempo. Con questa rubrica, desideriamo dare voce a chi sente il bisogno di condividere il proprio sentire attraverso la scrittura, sia essa poesia o racconto. Ogni venerdì raccogliamo voci diverse che si intrecciano in un tessuto emotivo e culturale, riflesso dell’anima collettiva.
Questa settimana vi proponiamo cinque contributi intensi, un racconto di memoria e identità, due poesie che esplorano i confini tra luce, silenzio e sogno, una lettera poetica d’amore generazionale e un omaggio delicato a Papa Francesco, a cui si aggiunge una poesia che è anche invocazione per un mondo più umano.
1. Il campanile della mia infanzia
Joseph Zurlo
Ad ogni mia partenza custodivo devotamente un’immagine che rimaneva impressa nei miei occhi, nei ricordi che mi proiettavano a casa, un frammento della mia terra portato nel cuore: il campanile a piani rastremati e con cupola a più lati della chiesa matrice che domina il mio paese, visibile da tutte le strade che giungono dai paesi vicini, e si staglia all’orizzonte come un custode silenzioso. Al vespro, il tramonto salentino lo avvolge di rosso vivo, con riflessi arancioni, viola, gialli, che ne infuoca il tufo di cui è fatto, regalando uno spettacolo naturale che acquieta lo spirito e porta una pace profonda al mio animo inquieto.
Quel campanile rappresentava il punto di partenza dei miei viaggi, un simbolo che andava oltre l’architettura e rappresentava la memoria della mia terra e la spiritualità maturata nel corso degli anni. Era il luogo dove, da bambino, sognavo di salire. Ci si accedeva dalla porticciola di legno, che ricordo sempre semichiusa, posta in fondo alla navata di destra della chiesa. Quella porta conduceva alle scale di tufo, consumate dal sali e scendi del sagrestano, che emanavano odore di antico, di incenso e di cera. Erano perennemente ingombre di una pedana di legno dipinta di marrone scuro, con cornice ad ampia bombatura tondeggiante, poggiata su un lato. Era quella dove venivano collocate le statue del santo patrono o della Madonna, da portare in processione; insieme a essa c’erano tanti altri oggetti che si usano per celebrare le festività religiose più importanti. Era il luogo un po’ misterioso dove non si poteva accedere, ma che alimentava il mio sogno, quello di ammirare orizzonti lontani dalle bifore del livello più alto.
Il colore fuoco che lo avvolge nelle ore del tramonto, lasciandone intravedere solo i contorni della sagoma nera, mi invitava al silenzio, alla riflessione e a contemplarne la bellezza semplice.
Ancora oggi, quando lo guardo, mi racconta fatti accaduti, risveglia dolori, gioie e ricordi di partenze e promesse di ritorno. È un richiamo costante a ciò che è stato, un punto fermo del mio mondo, fatto di giochi e risate, di bambini che si rincorrevano e che si raccontavano le loro malefatte, di fughe improvvise dopo i dispettosi scampanellii alle case, di corse in bicicletta verso le ultime abitazioni del paese che si confondevano con i rustici e le abitazioni in tufo abbandonate nelle campagne, di frutti rubati dagli alberi, baccelli di fave strappati, i cui semi si mangiavano di nascosto, rannicchiati tra le piante verdi, di contadini fintamente minacciosi e urlanti perché derubati delle loro prelibatezze, di tragici accadimenti, di pianti dolorosi, di un legame con la mia terra che non muore mai.
Il campanile del mio paese mi ricorda da dove vengo. La sua base quadrata mi ancora alla mia terra, mentre la sua altezza mi slancia verso l’azzurro, tra i cirri bianchi del cielo salentino. È la costruzione che mi ha sempre connesso al presente, al ricordo di chi ero e all’immagine viva di chi desideravo diventare. È un ponte simbolico tra le radici e l’orizzonte, tra la terra e il cielo, tra il passato e ciò che ancora non è ma vibra dentro di me.

Parole impresse nel tempo, come i sentimenti che non svaniscono mai.
2. Sentiero di luce
Lucia Santucci – da: “Tra ombra e Luce – Frammenti di Essenza”
Sotto il soffio di un’alba
che si dissolve in silenzi,
l’essenza di un tempo dimenticato
si libra, fragile e vibrante,
trasformando l’aria in un palpito segreto.
Nel respiro leggero del giorno,
le ombre si dissolvono in un labirinto di luce,
e ogni istante diventa una fragile impronta
di misteri che danzano al confine del reale.
Il vento, eco di antiche melodie,
sussurra simboli celati tra i petali
di un giardino sospeso tra sogno e verità,
dove il silenzio stesso assume voce.
In questo frammento sospeso, senza età,
il cuore si apre all’infinito,
abbracciando l’oblio e la rinascita
in un’armonia che sfugge a ogni logica.
Qui, dove il tempo si dissolve
in una promessa inespressa,
la luce si fa sentiero
verso l’ignoto eterno.
Presentazione
Con la poesia “Sentiero di luce”, ho voluto fermarmi su quel confine sottile tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo, tra ciò che ci appare reale e ciò che ci sfugge, ma vibra in noi come un’eco lontana.
Questi versi sono nati in un momento di ascolto profondo, rivolto non tanto al mondo esterno, ma a quel giardino interiore che tutti custodiamo.
La luce, in questa poesia, non è solo un elemento naturale. È presenza viva, guida discreta.
“Sentiero di luce” è un invito a rallentare, a lasciarsi toccare dal mistero che ci abita.
3. Vorrei
Maria Emilia Mari
Donarti vorrei
la somma dei miei giorni
andati
un tempo palpitanti vita
petali leggeri oggi e stinti,
dal vento sospinti altrove
dallo stelo,
perché tu possa visitarne
le emozioni
d’un bagaglio a mano,
che può anche gravare
le giunture.
L’incanto delle stagioni tutte
mostrarti vorrei,
in un caleidoscopio di colori
corruschi alcuni, altri adamantini,
una a finire l’altra ad incipiare,
pietre miliari delle mie varie età.
Infonderti vorrei
la curiosità c’ogni mattina
ancor mi coglie ad abitare
il solco mai residuo della vita,
dei sogni che continuo
a carezzare,
dei progetti che non devono
fallire,
dei miei affanni per un mondo
che i suoi non riesce ad alienare,
di protendere la mente
ad ogni sussurro nuovo
più puro, più giusto,
come un bimbo c’ancora ignora
il “se” e il “ma”,
comunque senza indugi
s’alza a camminare.
Commento- Riflessione
È una poesia che nasce dall’amore profondo per il proprio nipote, un intreccio di memoria, speranza e tenerezza che solo il cuore di una nonna può esprimere.
Un dono dedicato a Lorenzo, una lettera d’amore e di vita, dove l’autrice desidera affidargli ciò che ha vissuto: i suoi giorni, le sue stagioni, le sue emozioni, leggere come petali ma intense e autentiche, perché possano diventare per lui una luce discreta capace di accompagnarlo lungo il suo cammino.
Ogni strofa è un gesto d’affetto: la voglia di trasmettere la bellezza del mondo, anche nelle sue sfumature più fragili, insegnando che ogni colore, anche il più opaco, fa parte della verità dell’esistenza.
Ma ciò che più colpisce è il cuore pulsante della poesia: la speranza, la curiosità, il coraggio di continuare a credere, nonostante tutto. L’autrice parla di sogni che accarezza ancora, di progetti che non devono fallire, di un impegno verso un mondo che, pur attraversato dalla violenza e dalla sopraffazione, continua a meritare fiducia.
E quel finale, così tenero e intenso: l’immagine del bambino che, senza sapere nulla di limiti o di paure, semplicemente si alza e cammina. Un invito limpido a non arrendersi, a proseguire con purezza e forza anche nei giorni incerti.
Un messaggio prezioso, colmo di amore e di verità, un’eredità silenziosa e luminosa che ogni ragazzo dovrebbe ricevere: una guida invisibile, fatta di sogni, coraggio e fiducia nella vita.
Lucia Santucci
4. Francesco, il Papa degli ultimi
Roberta Alberti – 21.04.2025
Ultimo respiro
esali all’alba
del “Lunedì dell’Angelo”.
Strappi la coltre celeste,
la Chiesa che non ti ha amato
come gli anziani d’un tempo,
che l’hanno ripudiato.
Profondo dolore
invade il cuore
delle umane genti;
uno stato di vertigine
travolge l’anno giubilare.
Smarrito il gregge
che dopo il “poverello”
in Te ha riscoperto
l’umanità nella novella.
Accoglie l’angelo
le tue spoglie,
che si adornano
di petali selvatici,
nati nel giardino
degli ultimi felici
che ti hanno curato.
Nel numero ottantotto
simbolo dell’infinito,
sento la tua mano
che benedì
il mio capo.
5. Un alito immenso
Elisabetta Fioritti – da: “Il vento tra le foglie”, Bertoni Editore, Collana Aurora
Quel che vorrei
è un mondo diverso
dove fioriscano boccioli e parole
e ogni lingua e dialetto
ogni silenzio e pensiero
possa volare
tra sorrisi e ali sospese.
Vorrei parlare con tutti i sensi,
pelle per accarezzare,
occhi per perdonare,
orecchie per ascoltare.
Gusto per assaporare ogni frutto maturo
e odorato per annusarne il profumo.
Vorrei un universo altro
dove parlare senza gridare
accarezzare senza far male,
dove ascoltare
i respiri di chi è diverso
per capire che siamo uguali.
Nel soffio intimo che ci precede
e che un giorno ha una fine per tutti
uguali e distinti
separati da un battito
Tic tac tic tac
un alito breve ed intenso
flebile e insieme tenace,
a tratti
un Alito immenso.
Le parole che avete appena letto sono testimoni del tempo, custodi di emozioni, memorie e desideri. Ci mostrano che la scrittura è ancora un luogo di rifugio e resistenza, di luce e verità.
Ringraziamo di cuore gli autori di questa settimana per aver condiviso parte del loro mondo interiore. Ogni racconto e poesia è una finestra che si apre sul paesaggio dell’anima, un invito a sostare, riflettere e lasciarsi toccare.
La rubrica “Versi e racconti della settimana” vi dà appuntamento al prossimo venerdì. Le porte sono sempre aperte per chi desidera condividere emozioni autentiche, nate da sensazioni reali.