RACCONTO INEDITO DI ANTONELLO PELLICCIA
La notte, nel recesso più recondito della mia coscienza, si era trasfigurata in un emiciclo sinistro, un anfiteatro di cristallo algido e di onde sonore spettrali, dove gli incubi, simili a larve fameliche, si libravano in una danza lugubre con le chimere del sonno. Un corteo lento e inesorabile di visioni apocalittiche si dispiegava innanzi al mio sguardo interiore, un palcoscenico desolato dell’assenza, dove la fragile apparenza della realtà si dissolveva in una lugubre sinfonia di ombre striscianti e di suoni indistinti, eco lontana di un mondo in disfacimento. Il mio tormentato esperimento si manifestava nell’illusoria pretesa di afferrare un legame etereo, una sorta di “sinfonia visiva” occulta, una “musica ottica” sfuggente. Allestivo inquadrature che rifuggivano la prosaicità del mezzo filmico consueto, cercando una nuova, inquietante forma che si celava al di là della portata dello sguardo obiettivo della macchina da presa, in quel regno inesplorato del fuori campo. La mia ossessiva aspirazione era di evocare quel flusso vibratorio e sfumato, quella palpabile alterazione della percezione che imprigiona l’anima durante le peregrinazioni psichedeliche. Un tentativo disperato di trascendere le catene della realtà tangibile, di scandagliare gli abissi inesplorati delle profondità dell’immaginazione, là dove la ragione vacilla e il terrore si annida.
Tormentato, consumato dall’inafferrabile concetto del tempo, indissolubilmente avvinto al rettangolo luminoso dell’inquadratura, mi dedicavo con morbosa assiduità allo studio del film Sleep. Un’opera enigmatica, che osava sfidare le convenzioni più radicate, che invitava lo spettatore, con un sussurro quasi blasfemo, a contemplare la nauseabonda banalità del quotidiano, a cercare, con sforzo disperato, una qualche effimera bellezza celata nell’ordinario, in quel grigiore opprimente che ci circonda. Una sera, che si distinse dalle altre per una stanchezza che non era solo fisica ma anche una sorta di esaurimento della facoltà di astrazione, stremato dalle mie notturne elucubrazioni, da quel tentativo incessante di penetrare la natura elusiva della visione, cedetti al sonno. Le immagini lente e monotone del film, quel flusso visivo quasi privo di eventi significativi, continuavano a scorrere nella penombra della stanza, come un fiume di oblio che prometteva, forse illusoriamente, di trascinare con sé il peso delle mie ossessioni. In quell’istante, in quel punto di confine incerto tra la coscienza vigile e l’abbandono al sonno, la tenue membrana che separa la veglia dal sogno si assottigliò progressivamente fino a dissolversi completamente, lasciandomi in una sorta di limbo percettivo.
Il tempo stesso, quel tiranno inesorabile che scandisce la nostra esistenza con la sua metrica precisa, parve dilatarsi in un’agonia senza fine, perdendo la sua usuale linearità e frammentandosi in una serie di presenti statici. Mi ritrovai inabissato in un paesaggio onirico di indicibile stranezza, dove le immagini del film, i residui di quella visione prolungata, si fondevano inestricabilmente con i miei incubi più reconditi, con quelle paure inarticolate che si annidano nelle pieghe oscure della mente, creando un’armonia dissonante, una sinfonia cacofonica di ombre danzanti e luci spettrali, un presagio incombente di una perdizione che non riuscivo a definire concettualmente, ma che percepivo con una crescente inquietudine viscerale. Nel labirinto contorto del mio sonno, un luogo dove le leggi della fisica e della logica si sospendevano in favore di un’associazione libera e spesso angosciante di elementi, all’improvviso come un’aberrazione che irrompe nella sequenza logica di un incubo cinematografico, una figura si materializzò dinanzi a me. Non una semplice apparizione, ma una presenza densa di una sinistra intenzionalità.
Era Hop, il cui nome stesso risuonava nella mia mente non come un suono, ma come un’eco beffarda che sottolineava l’assurdità della mia situazione nel silenzio opprimente di quel luogo onirico. Il suo ghigno non era un’espressione di gioia, ma un contorcimento grottesco che deformava i tratti del volto in una maschera di derisione, e i suoi occhi, pozzi oscuri e penetranti, sembravano scrutare non la superficie del mio essere, ma le sue stratificazioni più profonde, con una malevola curiosità, come un anatomopatologo che analizza un organismo indifeso. “Sei intrappolato nel tuo sogno, Tony,” sibilò con una voce che non era un vero suono, ma piuttosto un fruscio inquietante che sembrava provenire da un luogo sotterraneo, “un prigioniero volontario, anche se forse inconsapevole, delle catene invisibili che ti sei forgiato con la tua stessa immaginazione.” Ma nel profondo del mio spirito tormentato, ecco, una scintilla di ribellione si accese. Non ero un prigioniero, no, ma un audace esploratore degli abissi della coscienza, un cercatore solitario di una verità sfuggente e sinistra. Il mio sogno era il mio regno tenebroso, il mio palcoscenico privato, dove potevo plasmare una realtà distorta e tutta mia, dove potevo tentare, con uno sforzo disperato, di imporre un ordine effimero al caos strisciante che mi assediava. In quell’istante inquietante, le note spettrali che fluttuavano nell’aria si fusero con il fragore lugubre delle onde, con le immagini del film che ancora danzavano nella mia memoria. Crearono una sinfonia dissonante di colori lividi e suoni agghiaccianti, un’armonia inquietante che pareva trascendere i fragili confini della percezione umana, conducendomi sempre più nel cuore oscuro del mio labirinto onirico. E in quel momento, una voce interiore, fredda e distante come la brezza notturna, mi sussurrò: “Ah, Tony, illuso cercatore di senso in un mondo di ombre, non sai forse che il vero orrore risiede non nei sogni, ma nel risveglio che inevitabilmente li segue?” Hop, come un fantasma svanito alle prime luci dell’alba si dissolse nell’etere rarefatto del mio sogno, lasciandomi solo, in balia del mio stesso delirio, con il peso opprimente della mia sedicente libertà. Al risveglio, un’ombra inquietante si proiettava sul candore spettrale delle lenzuola. Ai piedi del letto, come un presagio di sventura materializzatosi nel cuore della notte, giaceva una cinepresa. Un senso di profonda perplessità mi assalì, una nebbia fitta di oblio avvolgeva la mia memoria. Non ricordavo, non comprendevo la sua sinistra presenza.
Era un oggetto estraneo, un frammento di un’altra dimensione, un simbolo inquietante di una realtà parallela, un’eco tangibile di un sogno perduto nelle oscure pieghe della mente. Incredulo, quasi paralizzato da un attonito stupore, ancora prigioniero delle spire del sonno, mi avvicinai con esitazione morbosa a quell’oggetto inanimato. Le mie dita tremanti osarono sfiorarne la fredda superficie metallica. In quell’immobilità meccanica, colsi un senso lancinante di estraniamento, il riflesso distorto di una realtà relegata al “fuori campo”, al di là della rassicurante, seppur illusoria, “solita inquadratura” della mia esistenza quotidiana. Un’immagine dell’assenza si stagliava dinanzi ai miei occhi, un vuoto inquietante che, tuttavia, pulsava di oscure e inesplorate possibilità. Così trascorsi notti e giorni in una solitudine opprimente, in un’inedia sensoriale che privava il mio mondo dei profumi e dei sapori. Quel digiuno forzato di lampi visuali aveva esacerbato in modo angosciante il desiderio morboso di possedere, finalmente, la criptica visione del vuoto, di catturare quell’assenza in un’unica, definitiva ottica risolutiva. Cercavo, con la febbre di un alchimista in cerca della pietra filosofale, una via laterale, una modalità per sfuggire alla dimensione sondabile e fin troppo percepibile del pieno, della pienezza opprimente della realtà. Era un tentativo disperato di trascendere i fragili limiti della percezione umana, di addentrarmi nelle caverne più recondite dell’immaginazione, là dove la ragione stessa vacilla sull’orlo dell’abisso.