…. la sinistra lo celebra in smoking con calice di bollicine


In un’Italia sempre più simile a un film di Buñuel diretto da un algoritmo ubriaco, l’ultima commedia grottesca ce l’ha servita la sinistra progressista, quella da salotto bio e seminari TEDx su come decostruire la virilità tossica con i piedi nella sabbia di Capalbio. Sullo sfondo: il funerale del referendum, celebrato con tanto di coccarda tricolore, lacrimuccia finta e un brindisi sincero a base di champagne.

Capitolo I: La brigata rosso pastello

La scena si apre su un palchetto dimesso, uno di quelli in cui un tempo parlavano Di Vittorio o Berlinguer, oggi rimpiazzati da Elly Schlein col tailleur che pare uscito da un videoclip dei Pet Shop Boys e il tono compassato da podcaster svizzera. Le fanno eco Fratoianni, che ormai riesce a perdere anche le elezioni di condominio, e Bonelli, campione del voto a impatto zero. Magi gioca a fare l’hipster istituzionale mentre Renzi, in diretta da qualche convention sulle startup a Dubai, twitta una citazione di Churchill. Conte si aggira in penombra, come l’avvocato del popolo che ha perso sia il popolo che la parcella. Più defilato, Calenda gira in tondo come un Roomba impazzito tra gli scampoli di sinistra e liberalismo spuntato.

Capitolo II: Il sogno di Landini e la pernacchia del Quarto Stato

Poi arriva lui. Il Maciste del sindacato. Il Mosè della flangia arrugginita del proletariato. Maurizio Landini, che dopo aver portato in giro la croce del referendum come fosse la tavola della legge operaia, viene accolto con una sonora pernacchia dal Quarto Stato – quello vero, che invece del corteo ha preferito il barbecue. L’iconico quadro di Pelizza da Volpedo pare animarsi, ma i volti sono stanchi, si voltano e si allontanano con le mani in tasca.

Con la faccia di tolla del gangster che ha appena sparato un colpo a salve, Landini si presenta ai microfoni con la solita giacca blu, la camicia celeste e lo slogan “buongiorno a tutte e a tutti”, versione sindacalese del “non è colpa mia” in power point. Sostiene che non è una sconfitta, ma “un obiettivo non raggiunto”, come dire che Titanic non è affondato, ha solo cambiato destinazione. A chi gli chiede delle dimissioni, risponde che “non ci pensa proprio”, scatenando una raffica di brindisi nella stanza accanto, dove i vertici CGIL già preparano la notte dei lunghi coltelli.

Capitolo III: Il referendum boomerang e il socialismo d’arredo

La sinistra imbelle e imbellettata ha sfilato in queste settimane con slogan che odorano più di eau de toilette che di sudore di fabbrica. Hanno più facilmente parlato di inclusività che di contratti collettivi, più a loro agio con la semantica woke che con quella del salario minimo. Così, quando è arrivata la chiamata alle urne, i veri lavoratori – quelli che ancora distinguono le mani da tastiera da quelle callose – sono rimasti a casa. Perché la sinistra, ormai, non li rappresenta: li osserva, li studia, magari ci fa un documentario, ma poi preferisce parlare con i followers.

E mentre la destra esulta e prende appunti per la prossima riforma, i dirigenti progressisti si ritrovano a fare l’analisi del voto davanti a un vassoio di macarons e il solito prosecco biodinamico. Lacrime di coccodrillo per la stampa, sollievo in privato. Perché il vero obiettivo era salvarsi la poltrona, mica salvare i diritti.

Capitolo IV: Sconfitta? Ma va, è tutto un gioco di specchi

Landini non ha vinto, ma nemmeno ha perso – ci tiene a precisare. È la nuova arte politica: vincere perdendo, perdere vincendo, trasformare ogni rovescio in una tappa del percorso. “Il quorum non c’è stato? Beh, comunque abbiamo mobilitato 14 milioni di italiani!”, esclama, dimenticando che in un referendum il quorum è il voto. È come dire “la mia squadra ha perso 5 a 0, ma abbiamo dominato il centrocampo”.

Nel frattempo, i nostalgici del Pci si mangiano il cappello: ai loro tempi, di fronte a una disfatta, si mandava avanti il responsabile degli enti locali a raccontare delle vittorie nei microcomuni. Oggi no, oggi si fa il tour televisivo post-sberla, si canta la nenia della “crisi democratica”, e si torna a casa con la coccarda stropicciata.

Epilogo: Don Chisciotte e il bivio del saldatore

Landini, il saldatore con l’elmo di Don Chisciotte, ha sfidato i mulini a vento della politica reale. Ma senza esercito, senza alleati veri, e con il cavallo sfiancato. Il sogno di diventare il federatore della sinistra è naufragato in uno tsunami di astensione. E se non si rassegna al ritorno al sindacato puro, saranno i suoi a pappare lui. Come da miglior tradizione dell’iconografia sindacale: dove c’è un leader stanco, c’è una segreteria pronta a colpire.

Mentre lui insiste a parlare di nuova partenza, l’Italia prosaica guarda altrove. E alla fine, tra una metafora e l’altra, resta solo la frase amara di uno spettatore qualunque:
“Se questa è la sinistra, quasi quasi mi iscrivo a un club del burraco.”


Coming soon: “Il ritorno dei riformisti invisibili”, con ospiti speciali i voti dispersi e la dignità operaia smarrita nei cassetti dei talk show.

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