Di Yuleisy Cruz Lezcano
Nel mondo contemporaneo, lo stress, l’ansia e la depressione sono diventati compagni di vita per milioni di persone. Ma ciò che preoccupa ancora di più non è soltanto la diffusione di questi stati psicologici, quanto il modo in cui vengono interpretati: non più come risposte comprensibili a condizioni sistemiche oppressive, ma come fallimenti individuali nella gestione di sé. In questo quadro, chi soffre non è visto come vittima di un sistema sbilanciato, ma come un soggetto incapace di adattarsi. Il filosofo Byung-Chul Han ha criticato con forza questa ideologia in opere come La società della stanchezza e Psicopolitica. Secondo lui, viviamo in una società della prestazione, dove ciascuno è chiamato a diventare “imprenditore di sé stesso”. In questo contesto, la libertà si trasforma in un vincolo invisibile: se sei libero, allora tutto ciò che ti accade, stress, ansia, esaurimento, è responsabilità tua. La pressione non proviene più da un’autorità esterna, ma si internalizza: ci si auto-sorveglia, ci si auto-colpevolizza, ci si impone di funzionare. Non sorprende, allora, che la retorica dell’auto-aiuto e del pensiero positivo sia diventata una sorta di religione laica del nostro tempo.
Frasi come “credi in te stesso”, “nulla è impossibile”, “se ti impegni ce la farai”, sembrano incoraggianti, ma nascondono una visione profondamente individualista e colpevolizzante. Chi non riesce a reggere il ritmo, chi crolla sotto il peso dello stress, viene visto come debole, manchevole, pigro. Questo tipo di narrazione è particolarmente dannosa per le classi lavoratrici, che vivono spesso in condizioni di precarietà economica, sfruttamento lavorativo e mancanza di accesso a cure psicologiche adeguate. Invece di denunciare le ingiustizie strutturali, si pretende che le persone trovino la forza dentro sé stesse per sopravvivere. Ma a che prezzo?
Numerose ricerche sociologiche confermano che lo stress non colpisce in modo casuale, ma è socialmente distribuito. Gli storici studi Whitehall, condotti dal medico e epidemiologo Michael Marmot, hanno dimostrato che esiste una relazione diretta tra posizione sociale e salute: negli uffici pubblici britannici, i dipendenti di grado più basso avevano tassi significativamente maggiori di malattia cardiovascolare e mortalità rispetto ai dirigenti, nonostante abitudini di vita simili. Marmot parla di “status syndrome”: la salute peggiora quanto più si è in basso nella scala sociale, soprattutto perché si ha meno controllo sulla propria vita e sul lavoro.
A questo si aggiunge il concetto di “weathering”, introdotto dalla sociologa Arline Geronimus, che mostra come le minoranze sociali, in particolare le donne nere negli Stati Uniti, siano soggette a un invecchiamento biologico precoce a causa dello stress cronico generato da razzismo, discriminazione e disuguaglianza. Anche il biologo Robert Sapolsky, nei suoi studi su stress e gerarchia nei babbuini e negli umani, ha dimostrato che le persone in basso nella piramide sociale vivono in uno stato di allerta continua, con elevati livelli di cortisolo, e ciò produce un carico allostatico, un logoramento fisico e mentale nel tempo.
Il problema dell’auto-aiuto, allora, non è solo teorico o filosofico: è etico e politico. La sua diffusione promuove una visione distorta della realtà che ci impedisce di vedere le cause strutturali della sofferenza. Si chiede all’individuo di adattarsi a condizioni insostenibili come ambienti di lavoro tossici, precarietà economica, isolamento sociale, e se non ci riesce, si dà per scontato che sia lui il problema. “Adattati o muori” è il comandamento non detto del nostro tempo. Ma adattarsi a cosa? A un sistema che crea malessere strutturale e poi ci vende la resilienza come panacea, spesso in forma di manuali o corsi motivazionali.
Questa ideologia dell’autocontrollo non genera libertà, ma ossessione. Impone una logica performativa anche alla salute mentale: ci si monitora costantemente, si cerca di ottimizzare ogni secondo della propria esistenza, di diventare produttivi persino nella sofferenza. E mentre si è occupati a “funzionare”, si perde di vista il contesto: le ingiustizie sociali, la mancanza di diritti, l’erosione del welfare. Si perde, soprattutto, il senso della collettività, dell’agire comune, della possibilità di cambiamento politico.
Contro questa deriva, è urgente riaprire uno spazio politico ed etico che riconosca il peso delle condizioni materiali e sociali sull’esistenza individuale. Lo stress, l’ansia e la depressione non sono semplicemente questioni di forza interiore, ma risposte legittime a un mondo che spesso ci chiede troppo e offre troppo poco in cambio. Non è con l’auto-aiuto che ne usciremo, ma con un nuovo senso di solidarietà, responsabilità sociale e giustizia strutturale.