Il “decreto sicurezza” e le voci che non vogliamo ascoltare

In questi giorni il cosiddetto decreto sicurezza è tornato al centro del dibattito politico. Non si tratta solo di norme e codici: dietro ogni decreto ci sono vite, scelte, paure e silenzi. E c’è un problema enorme che non possiamo ignorare: quando una legge solleva dubbi di costituzionalità, quando i giudici si muovono per fermare un decreto, dovremmo fermarci anche noi. Riflettere. E ascoltare.

Ma non lo facciamo mai.

Un decreto che divide

La nuova proposta di legge sulla sicurezza intende, tra le altre cose, rafforzare lo “scudo penale” per gli agenti, semplificare le procedure per le espulsioni dei migranti, rendere ancora più rigidi i controlli e i meccanismi repressivi. L’intento dichiarato è quello di “proteggere chi ci protegge”, ma la domanda che dovremmo porci è: a quale costo?

Un sistema giusto si basa su un equilibrio fragile ma fondamentale: la legge vale per tutti, nessuno escluso. Quando si concede a una categoria per quanto cruciale una sorta di immunità, si rischia di incrinare proprio quel patto sociale che ci tiene insieme. E non è questione di ideologia, ma di tenuta democratica.

Chi contesta e perché

Le critiche non arrivano solo dall’opposizione politica. Anche alcuni magistrati, costituzionalisti e giuristi hanno sollevato preoccupazioni molto concrete: è davvero legittimo sospendere la responsabilità penale per un agente in servizio? E cosa significa questo per i cittadini più vulnerabili?

La giustizia non è vendetta, e nemmeno cieca obbedienza allo Stato. È garanzia, tutela, equilibrio. Se rompiamo questo equilibrio per paura o per propaganda, il risultato non sarà più sicurezza, ma più sfiducia.

Il vero nodo: la paura

Tutto ruota attorno a un’emozione: la paura. Il decreto è figlio di un clima culturale che ha bisogno di trovare un nemico, un colpevole, un capro espiatorio. E allora si criminalizza il migrante, si sospetta del povero, si rafforza la divisa. Ma questa non è sicurezza: è semplificazione. È rimozione collettiva delle responsabilità.

Le vere risposte alla paura stanno nella prevenzione, nell’educazione, nella presenza reale dello Stato nei territori, non nella militarizzazione delle strade o nella riduzione dei diritti.

Un modello sbagliato

L’idea che sicurezza significhi solo controllo è pericolosa. Anche perché spesso è il primo passo per delegittimare il dissenso, la stampa, la giustizia stessa. E quando uno Stato si mette contro i suoi stessi controllori, il rischio non è solo simbolico: è concreto. Lo abbiamo già visto nella storia, e ci siamo giurati “mai più”.

Eppure, eccoci qui.

Il futuro che vogliamo

Non possiamo continuare a costruire muri con i decreti. La sicurezza non è un esercizio di forza, ma di fiducia. Dovremmo domandarci: stiamo creando una società più sicura o semplicemente più sorvegliata? Perché la differenza è enorme.

È tempo di cambiare paradigma. Di costruire una sicurezza che nasce dal benessere, dalla coesione, dalla cultura della pace. Una sicurezza che non ha bisogno di “scudi”, ma di comunità.

 

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