L’alba nel porticciolo è un rito antico, sospeso tra il profumo di caffè amaro e l’odore pungente delle reti bagnate. I pescatori, con le mani segnate dal mare e le voci rauche, si ritrovano come ogni mattina al bar, scambiandosi battute taglienti e ricordi che sanno di sale e di sfide vinte contro le onde
3:30 del mattino – Il caffè al bar del porto
L’aria è già calda, nonostante l’ora antelucana, carica di quell’umidità salmastra che preannuncia una giornata afosa. Il bar del porticciolo, l’unico aperto a quest’ora, è avvolto da una luce giallastra che filtra dalla porta d’ingresso, disegnando ombre lunghe sul pavimento. All’interno, l’aroma intenso del caffè si fonde con il pungente sentore dell’anice, mentre sullo sfondo persistono il tanfo di sigarette stantie e l’odore di alghe e sale.
I pescatori sono già lì, schierati al bancone come un equipaggio in attesa del largo. Hanno mani callose e screpolate dal mare, che stringono tazzine fumanti, mentre le voci ruvide si confondono con il ronzio del frigorifero.
“Ah menu male ca tai discetatu beddhu te mamma! (Ah meno male che ti sei svegliato bello di mamma)” grida Pici, rivolto a Mino che entra con passo lento, gli occhi ancora gonfi di sonno. “Sta partine senza teve, nde pansane ca mujereta tia ttaccatu allu liettu! (Stavamo pertendo senza di te, pensavamo che tua moglie ti avesse legato al letto“.
La risata che segue è greve e affettuosa, mentre Mino, senza scomporsi, si trascina verso il bancone con l’aria di chi ha già vissuto questa scena cento volte.
“Lassatemi nu cafè nu cafè primma ca moriu… (lasciatemi prendere un caffè prima che muoia)” borbotta, sfiorando con le dita la tazzina che il barista gli ha già preparato, come se lo aspettasse da un’eternità.
Le battute volano veloci, taglienti come coltelli da pesca, cariche di quel sarcasmo che solo chi si conosce da una vita può permettersi. A volte pungono, ma il fondo è sempre affettuoso, amaro-dolce come il caffè che trangugiano in fretta. Sono anni, anzi, decenni, che si ritrovano in quel bar all’alba, tra un caffè e una sigaretta.
Sanno tutto l’uno dell’altro: i debiti mai saldati, le storie d’amore finite in rissa, le sbornie leggendarie che hanno fatto storia nel porto. Ogni parola è un rimando a un ricordo condiviso, ogni risata un’allusione a qualche vecchia disgrazia ormai diventata aneddoto.
“Ricordi quando Nino perse le reti e poi cadde in acqua ubriaco?”
“E come scordarlo? Pescarono lui invece delle triglie!”
E ancora ridono, perché ormai il tempo ha trasformato ogni disastro in una storia da raccontare. Tra loro non ci sono segreti, solo cicatrici di cui vantarsi.
Fuori, il motore di un gozzo romba nel silenzio dell’alba. Tra poco salperanno, ma per ora c’è ancora tempo per un ultimo sorso, un’ultima battuta, un ultimo respiro di terraferma.
4:00 – In banchina, tra saluti e preparativi
Fuori, il cielo comincia a schiarirsi, tingendosi di un rosa pallido che si scioglie nell’azzurro lattiginoso dell’alba. L’aria è così immobile che il fumo delle sigarette sale diritto verso l’alto, disegnando linee evanescenti nel silenzio umido del porto. Le barhce, ormeggiate in fila come soldati in attesa dell’assalto, oscillano appena sulla marea calma, con le reti ancora ammucchiate a poppa, pronte a essere dispiegate.
“Allora cumpare, osci faci bbitimu come se pisca taveru? (allora compare, oggi ci fai vedere come si pesca sul serio?)” dice Nino a Franco, il più giovane del gruppo, mentre lega una gomena consumata dal tempo e dal sale. Le sue mani, screpolate come corteccia, lavorano con la sicurezza di chi ha ripetuto quel gesto mille volte.
Franco, con un ghigno sfottente, non si lascia intimidire: “Ieu sacciu piscu, siti ui vecchi ca ormai taniti paura te lu mare! (Io so pescare siete voi vecchi che ormai avete paura del mare“.
“Paura nui? Figurate Ete ca ci te lassamu fare sulu, ritorni con due acciughe e nu cauru! (Paura noi? Figurati. E’ che se ti lasciamo fare solo, ritorni con due acciughe e un granchio)” ribatte Nino mentre gli altri annuiscono ridendo, le rughe del viso che si disegnano ancora più profonde sotto i berretti logori.
Altri scoppi di risate si perdono nell’aria salmastra, ma intanto le mani non si fermano: si controllano i motori con colpi secchi di chiave inglese, si sistemano le nasse con gesti rapidi, si riordinano le reti con meticolosa precisione. Ogni movimento è essenziale, quasi sacro. C’è un rispetto antico per quegli attrezzi logori – perché è da loro, da quei legni consumati e da quelle corde sfilacciate, che dipende il pane quotidiano, la scommessa contro il mare.
E mentre il sole inizia a bruciare via l’ultima nebbia mattutina, le barche una a una si staccano dalla banchina, lasciando dietro di sé scie spumeggianti. La giornata è cominciata.
4:30 – La partenza, il mare si sveglia
Un brontolio profondo squarcia il silenzio dell’alba quando i motori diesel prendono vita, vibrando come bestie che si risvegliano. Le barche si staccano dal molo con lentezza maestosa, solcando l’acqua immota e lasciando dietro di sé scie argentate che catturano i primi bagliori del giorno nascente. Il sole, ancora nascosto dietro la linea dell’orizzonte, incendia il cielo di viola e arancione, colori così vividi che sembrano dipinti a mano.
Il mare è una lastra di vetro appannato, appena increspata dal respiro della marea. Si direbbe che trattenga il fiato, in attesa di quello che verrà.
“Guarda ci bellezza…” mormora Mino, appoggiato alla murata, gli occhi fissi sull’orizzonte dove cielo e mare si confondono. “Quasi quasi me vene te pardunu pe tutte le strunzate ca tici. (Quasi quasi mi viene di perdonarti per tutte le stronzate che dici)“
Pippi, accanto a lui, sorseggia un caffè ormai freddo e annuisce, esperto. “Eh osci lu mare è bonu. (Eh oggi il mare è buono)” Fa una pausa, scrutando l’acqua con lo sguardo di chi sa leggere i segni nascosti. “Speriamo che anche il pesce la pensi così.”
Le loro voci si perdono nel rombo dei motori, mentre le barche avanzano decise verso il largo. Il giorno è cominciato davvero, e il mare – quel vecchio compagno capriccioso – aspetta solo di essere sfidato.
5:00 – La pesca, tra silenzi e bestemmie
Dopo un’ora di navigazione nel mare che comincia a brillare sotto il sole nascente, raggiungono finalmente il punto di pesca. Le reti scivolano in acqua con un tonfo sordo, inghiottite dalle profondità come offerte a un dio capriccioso. E poi comincia l’attesa, quella vera.
Le ore trascorrono lente, scandite solo dal cigolio dello scafo e dal gorgoglio dell’acqua contro la chiglia. Il sole si fa sempre più cocente, trasformando il ponte in una griglia rovente. La pelle si arrossa, il sudore scava solchi salati lungo la schiena, le mani – già segnate da mille cicatrici – si riempiono di nuovi tagli.
A volte una bestemmia soffocata sfugge tra i denti stretti, altre volte è una canzone a rompere la monotonia. Le voci si alzano stonate ma piene di vita:
Aria caddrhipulina mo canta canta
E ci nun sai cantare vieni ca senti
‘Nu corpu allu tampagnu e ‘nu corpu alla padella
‘Nu corpu alla uzzedha, nui ballamu la tarantella
Mannaggia la marea, la marea de lu mare
Comu te giri giri sempre arrethu l’hai piare
Mannaggia la marea, la marea de lu mare
Comu te giri giri sempre arrethu l’hai piare
Traduzione:
Aria gallipolina canta canta
che se non sai cantare vieni che senti
Un colpo al coperchio
un colpo alla padella
Un colpo alla brocca noi balliamo la tarantella
Mannaggia la marea
la marea del mare
Come ti giri giri
sempre dietro la devi pigliare
“Tiriamo su, forza!” grida improvvisamente Salvatore.
I muscoli si tendono in un unico sforzo corale, le braccia tremano sotto il peso. La rete emerge lentamente, gocciolante, luccicante di scaglie al sole.
“Porca miseria, guarda che botta!” esulta Franco, mentre tra le maglie fangose guizzano orate, spigole, cefali, saraghi, ricciole e alici – un tesoro che scintilla come monete d’argento.
E mentre la barca punta di nuovo verso riva, carica o vuota che sia, ognuno sa che domani si ricomincerà. Perché il mare è una promessa che non finisce mai, una sfida che non si può rifiutare. Perché questo è il loro destino, scritto nel sale e nel sudore.
14:00 – Il ritorno, tra stanchezza e soddisfazione
Il sole picchia implacabile a picco sul mare quando le barce rientrano in fila indiana, scafi stanchi che solcano un’acqua ora di piombo fuso. In lontananza, il campanile della chiesa del porticciolo scintilla nella luce accecante, faro domestico che li richiama a terra.
Al molo, l’odore di pesce fresco precede i pescatori. I mercanti già aspettano, ombre impazienti che si agitano sul cemento rovente.
“Allora cciti pijatu osci?” grida un pescivendolo, asciugandosi le mani sul grembiule macchiato di squame.
Peppino, mentre scarica cassette grondanti di pesce luccicante, ride con quella risata rauca che solo chi ha sfidato il mare conosce: “Giustu cu pacamu la nafta e nu bicchiere te vinu!”
Tra le cassette, le prede della giornata guizzano ancora – orate dagli occhi vitrei, cefali argentati, saraghi dalle labbra carnose. Ogni scaglia racconta una storia di fatica e fortuna.
I più giovani scaricano con energia residua, i vecchi si muovono con l’economia di gesti di chi ha già dato tutto. Le schiene sono curve, le mani screpolate, ma negli occhi c’è quella luce che solo il mare può dare – un misto di orgoglio e rassegnazione, perché oggi è andata bene, ma domani chissà.
Mentre il sole comincia a calare, tra i banchi del mercato si alza un vociare vivace. Si contratta, si ride, qualche bestemmia sfugge ancora. Poi, uno a uno, si dirigono verso il bar del porto. Perché dopo il mare, viene sempre quel bicchiere sa di vittoria, o almeno di sopravvivenza.
15:00 – La manutenzione, e poi a casa
Prima di lasciarsi alle spalle la fatica del giorno, c’è ancora il rito sacro della cura. Le reti vanno sciacquate con pazienza, liberate dalle alghe e dai residui del mare, stese ad asciugare come lenzuola al vento. Gli scafi vengono lavati con gesti metodici, l’acqua salata che si mescola al sudore sulle fronti abbronzate. I motori ricevono un controllo attento – un ronzio, un’occhiata all’olio, una stretta ai bulloni.
Seduto sul molo che scotta ancora di sole, Salvatore sorseggia una birra ghiacciata che condensa sul vetro. “Domani si ricomincia”, dice, con quella rassegnazione felice di chi sa che il mare non concede tregue.
Franco, accanto a lui, segue con lo sguardo il volo di un gabbiano. “Sì, ma almeno oggi il mare è stato buono”, risponde, mentre le dita tamburellano ritmicamente sulla lattina.
Mino rimane in silenzio, gli occhi incollati all’orizzonte dove il blu del cielo sfuma in quello del mare. Le sue mani callose stringono una sigaretta spenta. Il mare è stato la sua vita intera – un amante crudele e generoso. Lo ha reso povero di cose e ricco di storie. Lo ha spezzato nella fatica e nutrito nella soddisfazione. E domani, come ogni alba da quarant’anni a questa parte, tornerà a sfidarlo.
Perché il mare non è solo lavoro. È memoria, è identità, è ossigeno. È tutto ciò che conosce.
E mentre il sole comincia a tingersi d’oro, uno a uno se ne vanno, con il passo lento di chi porta addosso il peso della giornata. Le ombre si allungano sul molo, mescolandosi alle reti stese. Domani si ricomincia. Perché il mare aspetta, e loro non sanno vivere altrimenti.