«Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il Regno dei Cieli subisce violenza, e i violenti se ne impadroniscono» (Matteo 11,12).
Questa enigmatica affermazione evangelica ha generato per secoli dibattiti e interpretazioni contrastanti. Che cosa intende Gesù con l’immagine della “violenza” in relazione all’ingresso nel Regno di Dio? Si tratta di una provocazione spirituale, o anche di una realtà concreta?
Sorprendentemente, un confronto con la tradizione islamica può offrire nuove chiavi di lettura, soprattutto alla luce della distinzione tra la grande jihād (interiore) e la piccola jihād (esteriore).
Una violenza santa?
Nel contesto evangelico, la parola greca usata – biazetai – può essere intesa sia in forma passiva (“il Regno subisce violenza”) che riflessiva (“il Regno avanza con forza”), e chi lo conquista deve essere biastēs – “violento”, “ardente”, “risoluto”.
Questa “violenza” non è crudele né sanguinaria. È lo slancio radicale di chi lotta contro le proprie passioni, contro l’inerzia spirituale, contro il conformismo del mondo. È il fuoco dei santi, la tensione ascetica dei monaci, la decisione eroica del discepolo che lascia tutto per seguire il Cristo.
Non è un caso che i Padri del deserto parlassero spesso di guerra interiore: un combattimento invisibile contro i pensieri malvagi (loghismoi), contro l’ego, contro il nemico spirituale. Questa è la “grande violenza” evangelica: un cuore che si fa campo di battaglia.
Il parallelo con l’Islam: jihād maggiore e minore
L’Islam distingue, nella sua tradizione classica, due forme di jihād (termine che significa “sforzo”, “lotta”):
Al-jihād al-akbar (“la grande guerra santa”): è la lotta contro il proprio nafs (ego), contro le inclinazioni basse, l’orgoglio, la rabbia. È lo sforzo spirituale per purificarsi e avvicinarsi a Dio.
Al-jihād al-asghar (“la piccola guerra santa”): è la lotta armata in difesa della comunità musulmana, regolata da norme giuridiche e etiche precise.
Secondo una celebre tradizione sufica, quando i compagni del Profeta tornarono da una battaglia, egli disse: «Siamo tornati dalla piccola jihād, ora ci attende la grande».
Anche in questo caso, la vera battaglia è interiore. Il combattente spirituale è colui che conquista il proprio cuore. La somiglianza con la visione evangelica è sorprendente: in entrambe le tradizioni, il cammino verso Dio non è passivo, ma implica una rottura, una lotta, una conquista.
Una “guerra” contro il male, non contro gli uomini
È importante notare che né Gesù né Maometto, nei loro insegnamenti più profondi, invitano alla violenza indiscriminata contro altri esseri umani. Al contrario, la violenza richiesta è una forza d’animo, un atto interiore, talvolta anche doloroso, ma volto alla pace, alla purificazione e alla comunione con Dio.
Quando Gesù dice che solo i “violenti” conquistano il Regno, non legittima la guerra armata per motivi religiosi. Sta indicando che il Regno non è per i tiepidi, ma per coloro che si sforzano con determinazione, che scelgono con coraggio, che affrontano le tempeste dell’anima per amore del Vangelo.
Tra ascesi e azione: un equilibrio delicato
Eppure, non si può negare che esista anche una dimensione esteriore della “violenza santa”, intesa come testimonianza coraggiosa, resistenza al male, opposizione alla menzogna, anche a costo del martirio. I profeti, i santi, i martiri cristiani non hanno mai usato la spada, ma hanno subito la violenza con una forza più grande: quella della fede incrollabile. In questo senso, il cristianesimo propone una “violenza dell’amore”, capace di smuovere imperi senza versare sangue.
Prendere il Regno dei Cieli con la violenza significa affrontare la grande guerra del cuore, simile alla jihād interiore dell’Islam. È una chiamata alla radicalità, al coraggio spirituale, alla rinuncia profonda. È la forza del mite, dell’umile, dell’obbediente – quella che cambia il mondo dall’interno.
Ma questa battaglia non si svolge in un vuoto astratto. Il male, infatti, non è una forza impersonale o metafisica vaga: nella tradizione biblica e cristiana, il male ha un volto, un’intelligenza, un’intenzione. È personale e attivo. Gesù non parla genericamente di “male”, ma lo chiama per nome: Satana, il nemico, il padre della menzogna (Gv 8,44).
Questo male si incarna nelle strutture, ma anche nelle persone. Si insinua nei pensieri, nei desideri, nei sistemi di potere. Si impossessa degli uomini – non in modo necessariamente spettacolare o “demoniaco”, ma sottile, quotidiano, insinuandosi nel cinismo, nella superbia, nella tiepidezza, nella complicità con l’ingiustizia.
Ecco perché la lotta spirituale non è mai solo simbolica. È reale, urgente. Chi vuole entrare nel Regno non può essere neutrale. Deve scegliere da che parte stare. Deve combattere contro il male che si è fatto cultura, abitudine, sistema – ma anche contro il male che, ogni giorno, bussa al proprio cuore.
Questa è la violenza di cui parla Cristo: non una guerra contro altri esseri umani, ma contro il dominio del male nel mondo e in noi stessi. È la violenza della grazia che strappa l’anima dalle tenebre. È la “milizia spirituale” che ogni credente è chiamato a combattere con armi invisibili: la preghiera, la vigilanza, la verità, la carità, il sacrificio.
Solo chi prende sul serio questa lotta può comprendere il vero significato della “violenza” evangelica: un amore così ardente da non lasciare spazio al compromesso con il male.
E solo chi ha vinto se stesso – e riconosciuto il male per ciò che è – potrà entrare nella pace del Regno.

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