Racconto 8 p.

di Yari Lepre Marrani

Impugnai le sbarre della mia cella dalla quale poco prima speravo mostruosamente di scappare, stringendone il ferro con gli occhi sempre più appannati dalle lacrime che versavo. E quei due frati avanzarono verso la mia cella, verso di me, camminando così delicatamente che sembravano due eterei fantasmi avanzanti senza che i piedi sfiorassero il pavimento.

Li vidi sopraggiungere verso la mia cella e per l’istante di un lampo la mia mente orrendamente provata si bloccò, si spense e stavo per crollare esausto a terra a causa della prova cui i miei nervi venivano sottoposti. Ma non crollai e, piangente, li vidi arrivare procedendo lungo il corridoio fino alle sbarre. Li guardavo con la testa tremante e china, pietosamente, su di una spalla, ormai avvezzo alla mia fine, rassegnato alla mia morte vedendo quei due frati che mi si presentavano con, ciascuno, una croce tra le mani ed un rosario grigio. Quando furono di fronte alla mia cella io non riuscii ancora a vederne i volti.

Realizzai però che dovevano essere smunti e magrissimi data la loro gracile corporatura. Il silenzio coprì la mia voce e indietreggiai di qualche centimetro lasciando la presa di quelle sbarre, così attonito che un improvviso,ineffabile riserbo o stupore giunse a chiudermi la bocca e serrarmi le corde vocali e, muto, aspettai che entrassero. Il bestione incappucciato alla mia destra tirò fuori un ampio mazzo di chiavi e mentre i due frati, chini a fissare il pavimento, erano fermi, l’energumeno aprì il cancello della mia cella. I due frati sostarono pochi secondi sulla soglia poi, prima uno poi l’altro, entrarono e mi si avvicinarono aprendo entrambi le mani verso di me come per recitare un Padre Nostro in mia memoria. E quando li ebbi davanti ai miei occhi ben li vidi in faccia scrutando tra le pieghe dello smilzo cappuccio.

Quando furono accanto a me e vidi i loro volti raggelai: due facce bianche e scolorite, simili al livor mortis, con due fessure scavate nelle ossa dove luccicavano due pupille grigie iniettate di sangue; volti così magri da potervi vedere l’impronta ossuta di un cranio ricoperto da labili tracce di pelle, insomma il simbolo della morte stessa. Io, fermo con la testa sempre china sulla spalla sinistra a modello d’ineluttabile rassegnazione al supplizio – se tale mi era stato riservato – li guardai per un attimo. Erano entrambi innanzi a me superato l’ingresso nella cella. Con le braccia e i palmi delle mani aperte uno mi disse con voce tanto angelica quanto mortuaria “E’ ora, preghiamo fratello” mentre il suo compagno disse “E’ arrivato il momento, andiamo. Abbiamo ancora tempo per prepararci e pregare assieme”. Fui lì colto dalla più abissale tragedia dell’angoscia e della disperazione, dallo spasmo di una morte ingiusta; iniziai ad agitarmi piangendo istericamente senza nemmeno più riuscire a parlare e vedere, tanto la fatica, la tensione, le lacrime e il sudore, che dalla fronte cadeva a rivoli bagnandomi gli occhi come il succo della desolazione, avevano offuscato  la mia vista.

Uno dei frati mi prese dolcemente a braccetto e l’altro agitava il suo rosaio e la croce per l’imminente preghiera. “Andiamo figliolo” mi dissero assieme. “No…non voglio morire!! Dio, non voglio morire!” gridai io mentre il bestione di destra, alla mia presunta resistenza a incamminarmi verso il patibolo, entrò nella cella avvicinandosi bruscamente al mio corpo e spintonandolo: non solo per farmi uscire e camminare ma per rassicurarmi, con il suo tono, che non c’era più scampo per me ed era meglio che mi avviassi con le buone se volevo evitare  le cattive cioè, magari, di finir tagliato in pezzi là su due piedi. E così iniziai a camminare con i due frati scheletrici al mio fianco, tra lamenti di angoscia, spasmi dello spirito e…rassegnazione.

A quest’ultima mi prostrai stremato e da essa trovai forza per uscire dalla cella verso la morte. E uscii da quella cella dove prima speravo di scappare libero e salvo. Io ero nel mezzo, tra i due frati e tutti e 3 iniziammo a camminare lentamente lungo il corridoio pietroso, tra le mura vetuste, alte e inquietanti di quella prigione. Camminavo piano, troppo piano e uno dei due energumeni incappucciati mi diede uno spintone alla spalla che quasi mi fece cadere a terra. Camminavo e in quegli istanti non pensai ad altro che alla disgrazia che mi stava colpendo tanto ingiustamente senza nemmeno concepire il perché mi trovassi lì e stessi avviandomi al patibolo.

Segue…

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