L’ultimo film di George Clooney dove la vincita ha il sapore della rivincita.

di Carmen Marinacci

La storia – vera – di uno dei più esaltanti ed inimmaginabili traguardi sportivi americani, tratta dal libro di Daniel James Brown e che George Clooney ha voluto trasformare in film nelle vesti di regista.

  1. Siamo nel bel mezzo delle lacerazioni inflitte dalla Grande Depressione americana e del buio che, dalla Germania, un uomo latrante diffonde come una nube di gas soffocante.

Ma, come la storia ci insegna, anche nella nebbia più fitta si può insinuare la luce. Ad innalzare la torcia (in tutti i sensi) è un gruppo di ragazzi, che dal fango delle strade raggiungono l’aurea vetta di un podio.

Siamo a Washington. Joe Rantz (Callum Turner) ha scarpe bucate ed un padre che non c’è. Ogni giorno versa sudore per poter sopravvivere, ma la sera, su un sedile che fa da casa, tra le mani grandi, rovinate dalla fatica, sfoglia con leggerezza un libro di chimica.

Nonostante la miseria non ammetta distrazioni, lui vuole guardare anche in un’altra direzione.

Non gli basta quello che il mondo fuori  ha scelto per lui; vuole studiare, va al College ma, come tutto, anche quel posto tra i banchi costa. La fortuna bussa alla sua porta:  cercano ragazzi  per formare le riserve della squadra di canottaggio dell’Università. Essere scelti significa guadagnare quel tanto che basta per sfamare il suo sogno.  Non può sbagliare. Anche questo non può permetterselo.  Diventerà uno dei nove e comincerà un percorso affinché i nove diventino uno.

A forgiare questi ragazzi venuti dal nulla, nutrendoli con dosi di disciplina e audacia, sarà  il coach Al Ulbrickson (Joel Edgerton), il prescelto per compiere questa che ai molti sembra una missione, per alcuni un miracolo.  Sarà lui il primo a scommettere su di loro, ostinato a puntare sul cavallo dato per perdente, sfuggendo a pronostici e diktat federali. Incassa la sua vincita. Eccoli a Berlino. Sugli spalti c’è l’impettito uomo dai baffetti neri, e negli spogliatoi un uomo dalla pelle nera di nome Jesse che avrebbe strappato al Terzo Impero quattro medaglie d’oro insieme all’idea ingannevole di onnipotenza.

La macchina da presa gira su di loro, lillipuziani catapultati in un mondo di giganti: per loro percorrere una delle corsie è già un traguardo. Ma si sa, quando si sogna bisogna farlo in grande.  Nelle vene scorre il sangue della lotta, la pelle trasuda ogni goccia di sudore, lo sguardo è rivolto dritto  al compagno e le braccia spingono contro la resistenza dell’acqua… e della storia.

Il libro di Daniel James Brown ha un tessuto facilmente adattabile per ritagliarne un film, una stoffa semplice per cucire un abito da sera; traghetta dei naufraghi verso paradisi straordinari. Mentre il mondo va a rotoli, i singoli – uniti – vanno controcorrente, trainati dagli ideali della perseveranza e del valore. Ognuno è diverso, a ciascuno è affidato un ruolo, ma, come in una coreografia, il passo di uno è avvolto nel corpo dell’altro. Lo scorrere dell’onda diventa una danza. Lo sceneggiatore Smith ha distribuito il punto di vista su tre dimensioni: quella individuale del vissuto personale di Joe, quella della squadra chiamata a fronteggiare un percorso fatto di crisi, gioie, fatiche fisiche e mentali e quello di un’intera comunità, che affida loro le speranze di rivalsa verso un’epoca priva di punti di riferimento, dimostrando che il labirinto in cui gli eventi ci ingabbiano può avere una via d’uscita.

L’unione di un gruppo, di un popolo, di un Paese, può sovvertire anche i più robusti poteri.

George Clooney realizza – in maniera pedissequamente scolastica – uno sport movie nazional-popolare, senza alcun orpello, ricerca stilistica o tocco d’autore, umilmente focalizzato sulla volontà di riportare al presente il passato, affidandosi alla penna di Mark Smith, alle musiche del premio Oscar Alexander Desplat e soprattutto alla fotografia realistica di Martin Ruhe.

Forse per i più appassionati di storia dello sport il finale non sarà una sorpresa, ma il film riesce ad accendere quell’innata euforia che proviamo di fronte a uomini che vestendo il colore di una maglia, lottano per noi, per vincere anche per noi.

Ed è allora che la storia può diventare epica.

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